IMITATORI

VI Domenica del Tempo Ordinario - Anno B

Il Vangelo di domenica scorsa terminava con un movimento abbastanza brusco di Gesù, che decide di andarsene dal villaggio dove ha iniziato a operare prodigi e guarigioni. Il vangelo di oggi ci aiuta a comprendere le ragioni di un comportamento così schivo e sfuggente di fronte al consenso della gente. Nell’episodio del lebbroso guarito che disobbedisce al comando di Gesù, si intravede il senso profondo della salvezza cristiana: Dio ci ama a tal punto da finire nel luogo dove noi dovremmo stare, da prendere sulla sua carne le ferite che — spesso invisibili ai nostri occhi — rimangono irrisolte sulla nostra.

Intoccabili
I lebbrosi vivevano ai margini della convivenza umana. «Sarà impuro finché durerà in lui il male; e impuro, se ne starà solo, abiterà nel fuori dell’accampamento» (Lv 13,46) diceva la Legge di Dio. Nessuno li poteva toccare, perché chi era colpito da questa orribile piaga era obbligato a respingere ogni avvicinamento, gridando: «Impuro! Impuro!» (13,45), ricordando così a sé e agli altri il proprio obbrobrio tatuato sul corpo. Tra le malattie mortali non ancora completamente debellate dalla progresso scientifico e dalla solidarietà umana, la lebbra ancora oggi esprime in modo drammatico uno stato esistenziale che tutti, in qualche modo, conosciamo. Esistono parti della nostra umanità, del nostro passato e del nostro presente,  del nostro corpo o del nostro carattere, che potremmo definire “impure”, dal momento che sono i luoghi delle nostre irraggiungibili solitudini. Sono i disavanzi del nostro bilancio, che cercano invano una colonna dove essere registrati, le parti inguardabili della nostra storia che  ci appartengono profondamente. Ciascuno ha una lebbra che rende impuro il proprio volto, una vergogna da sopportare ogni giorno. La lebbra è l’immagine del nostro isolamento, quel piccolo inferno di tristezza e oscurità che cerchiamo di nascondere a tutti. Tranne a Dio, forse.

Toccati
Un anonimo lebbroso si avvicina a Cristo e, trasgredendo la Legge, si mette in ginocchio, invocando un gesto di amore: «Se vuoi, puoi purificarmi!» (Mc 1,40). Quest’uomo crede che la sua povertà inguaribile e inguardabile possa essere sanata da Cristo, che sta passando accanto a lui. Il Signore non ha esitazioni: «ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”. E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato» (1,41-42). Cristo tocca questa persona nella sua impurità, nella sua sporcizia, rivelando così il senso della sua vita e della sua missione: avvicinarsi alla povertà di ogni uomo per strapparlo dalle tenebre della rassegnazione e della morte. È importante notare che quest’uomo viene toccato mentre è impuro, a testimonianza che a Dio interessiamo più noi che le nostre imperfezioni. Infatti, noi veniamo toccati dal suo amore prima delle nostre opere e dei nostri meriti, siamo amati prima di essere amabili. Essere cristiani significa appunto questo: scoprirsi gratuitamente desiderati, dentro e oltre le nostre povertà. Finché non riconosciamo questa qualità di bene e non cominciamo a viverne, il nostro cuore resta in un certo senso arido e solo. Soltanto sperimentando la gratuità dell’amore di Dio iniziamo il nostro esodo da solitudine e paura. Purtroppo la guarigione del cuore è un processo lungo. E noi spesso abbiamo fretta. Di dirci e di crederci già risanati.
Imitatori 
Così accade infatti al lebbroso guarito, che non obbedisce all’ordine solenne impartito da Cristo di non dire nulla a nessuno: «quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti» (1,45). Il lebbroso probabilmente non ha capito che la cosa più importante che gli è successa non è tanto l’essere stato guarito, ma l’aver incontrato Cristo. Anche noi corriamo il rischio di esternare troppo frettolosamente i gesti d’amore e di salvezza con cui la misericordia del Signore sa raggiungerci. Annunciare il nome di Gesù e diffondere la sua parola è certamente un compito molto importante. Però può anche essere un modo con cui evitiamo di assimilare fino in fondo le esigenze del vangelo, che ci chiedono di diventare non solo beneficiari dei doni di Dio, ma anche imitatori del suo modo di agire, accogliendo con premura la vita e la povertà dei fratelli. Non ci sfugga la cronaca che conclude il racconto evangelico. Gesù è costretto a prendere il posto del lebbroso, nel deserto, non potendo «più entrare pubblicamente in una città» (1,45). Questa condizione di emarginazione si compirà drammaticamente nella passione e nella morte in croce, come osserva l’autore della lettera agli ebrei: «Gesù, per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta della città» (Eb 13,11-12). Il Signore Gesù se ne starà fuori, al posto che spetta(va) a noi. Amare significa farsi carico dell’altro, fino ad assumere la sua impurità e la sua vergogna. La vita in questo mondo ci è data per imparare a compiere questa scelta, che realizza la nostra immagine e somiglianza con Dio. Talvolta noi vorremmo ricevere solo i benefici dell’amore senza farci carico dei suoi inevitabili costi. Infatti è più facile parlare di Gesù che imitarlo (particolare autobiografico, nda). Scrive invece l’apostolo: «Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1). Questa è la grande sfida che la Parola di Dio in questa domenica ci restituisce: non solo lasciarci toccare e amare dal Signore, non solo annunciare al mondo la sua potente bellezza, ma diventare suoi imitatori. Allora si compiono per noi le Scritture e ciò che facciamo può diventare «tutto per la gloria di Dio» (10,31), riflesso nel mondo della sua bellezza.  

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