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Giovedì – I settimana del Tempo Ordinario

Al tempo di Gesù, i lebbrosi vivevano ai margini. Nessuno li poteva toccare, perché chi era colpito da questa orribile piaga era obbligato a respingere ogni avvicinamento. Tra le malattie mortali non ancora completamente debellate dal progresso scientifico e dalla solidarietà umana, ancora oggi la lebbra esprime in modo drammatico uno stato esistenziale che tutti, in qualche modo, conosciamo. Esistono parti della nostra umanità, del nostro passato e del nostro presente,  del nostro corpo o del nostro carattere, che potremmo definire ‘impure’, poiché sono i luoghi delle nostre irraggiungibili solitudini, le parti inguardabili della nostra storia che ci appartengono profondamente. La lebbra è l’immagine del nostro isolamento, quel piccolo inferno di tristezza e oscurità che cerchiamo di nascondere a tutti. Tranne a Dio, forse.

Venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva:
«Se vuoi, puoi purificarmi» (Mc 1,40)

Quest’uomo crede che la sua povertà inguaribile e inguardabile possa essere sanata da Cristo, che sta passando accanto a lui. Il Signore Gesù tocca questa persona nella sua impurità, nella sua sporcizia, a testimonianza che a Dio interessiamo più noi che le nostre imperfezioni. Infatti, noi veniamo toccati dal suo amore prima delle nostre opere e dei nostri meriti, siamo amati prima di essere amabili. Soltanto sperimentando questa gratuità d’amore iniziamo il nostro esodo da solitudine e paura. Purtroppo la guarigione del cuore è un processo lungo. E noi spesso abbiamo fretta. Di dirci e di crederci già risanati. Così come fa il lebbroso che divulga subito il fatto, anziché obbedire all’ordine severo di Gesù:

«Guarda di non dire niente a nessuno; 
va’, invece, a mostrarti al sacerdote
e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, 
come testimonianza per loro» (1,44)

L’amore di Dio non è condizionato dalla nostra miseria: è libero, gratuito, ostinato. Tuttavia detta condizioni alla nostra libertà, perché non vuole essere un temporaneo sentimento, ma una relazione duratura. Non si lascia strumentalizzare, né prendere in ostaggio, come ci ricorda il drammatico momento in cui Israele, di fronte alla forza militare dei Filistei, si illude che la presenza dell’arca nell’accampamento possa garantire forza e vittoria. 

Non appena l’arca dell’alleanza del Signore 
giunse all’accampamento, 
gli Israeliti elevarono un urlo così forte 
che ne tremò la terra (1Sam 4,5)

Fu un grande inganno. Quel giorno morirono trentamila persone. Sette volte tanto quelle cadute quando Israele aveva provato a combattere con le sue proprie forze. La fedeltà di Dio alla nostra umanità non è un talismano in cui confidare, né tanto meno una forza da brandire contro i nostri nemici. È una speranza sulla nostra vita così bella e fedele, da renderci capaci di mostrarci uomini degni di questo nome in ogni occasione. Senza vanità e senza paura. 

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