UN RE “ALTRO"

Solennità di Cristo Re – Anno C

La solennità di Cristo Re dell’universo, che conclude l’anno liturgico, è una festa abbastanza sibillina, apparentemente démodé. Parlare di re e di regni stride con la nostra sensibilità moderna, stanca — per non dire esausta — di essere male rappresentata e governata da poche persone potenti. Ma, per noi cristiani, questa festa non è l’occasione di accendere il ricordo di tempi passati, spolverando nostalgie monarchiche. In questa domenica noi proviamo a mettere con sincerità il nostro volto davanti alla debolezza di un Signore Crocifisso, per riconoscere nel suo modo di vivere e di morire, non un altro re da presentare al mondo, ma un re “altro” da testimoniare in mezzo al mondo con la nostra stessa vita. Un re sempre e per sempre diverso dai nostri peggiori incubi, più grande e bello di qualsiasi nostro sogno.

Nessuno
La solenne intronizzazione che in questa domenica siamo invitati a contemplare non è quella gloriosa e sfolgorante del mattino di Pasqua, quando il Cristo ha manifestato la sua potenza sul peccato e sulla morte risorgendo dal sepolcro. Attraverso la cronaca dell’evangelista Luca — che ci ha accompagnati in quest’anno liturgico — siamo invece condotti sul Golgota, ai piedi della croce, nel momento in cui Dio ha rivelato attraverso il suo Figlio agonizzante l’abisso del suo amore infinito per ogni uomo. Il vangelo, con molta lucidità e precisione, ci mostra le diverse reazioni davanti a questo pietoso «spettacolo» (Lc 23,48) di sofferenza e di morte. C’è «il popolo» che sta «a guardare», «i capi» che scherniscono Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto» (23,35). Anche i soldati si uniscono al dileggio: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso» (23,37). Persino «uno dei malfattori appesi alla croce» accanto a lui «lo insultava»: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!» (23,39). Mentre noi pensiamo che un re debba salvare anzitutto se stesso, Gesù si mostra re proprio perché, invece di salvare se stesso, salva noi. Non chiedendo né pretendendo di essere riconosciuto e apprezzato per questo gesto gratuito di solidarietà nei nostri confronti. Per nulla interessato a essere immediatamente acclamato come re. Il vangelo puntualizza che solo una scritta appesa al palo della croce — il titulus crucis — esplicita quella realtà che nessuno in quel momento era capace di vedere. Nessuno, tranne uno.

L’altro
C’è un personaggio, però, che non si unisce al coro dei troppo facili giudizi. La tradizione lo ha chiamato “buon ladrone”, ma in realtà il testo evangelico non gli assegna alcun nome, lo descrive semplicemente come «l’altro» (23,40). Questo poveraccio, anch’egli condannato a morte, è la prima persona in grado di riconoscere nel Cristo inchiodato sulla croce il Re della storia e dell’universo: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (23,42). Con un filo di voce, il Re morente spalanca a lui per primo le porte della vita eterna: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (23,43). Quest’uomo, ridimensionato dalla sofferenza e reso umile dalle circostanze assolutamente sfavorevoli, diventa il primo cittadino del cielo perché intuisce il mistero della regalità di Cristo. Sapendo bene che «non ha fatto nulla di male» (23,41) eppure porta su di sé tutto il male del mondo con assoluta mitezza, quest’uomo comprende che in Gesù siamo «liberati dal potere delle tenebre» del male perché «abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati» (Col 1,13.14). Il peccato, infatti, nasce sempre dal tentativo di mettere in salvo la nostra vita per evitare di metterci a servizio di quella degli altri. La seconda intuizione che questo malfattore riesce ad avere nei confronti di Cristo è la capacità di riconoscerlo come il «primogenito di quelli che risorgono dai morti» (1,18), per un modo di morire pieno di amore e di dignità, in cui si rivela la grandezza dell’uomo creato per offrire se stesso nella libertà. Del resto, non ci può essere – e non ci sarà – alcuna risurrezione senza prima l’insurrezione di tutta la (nostra) umanità chiamata, già in questo mondo, a vivere e a esistere nel paradiso di Dio. 

Noi
La liturgia di questa domenica è l’occasione per recuperare la fierezza di appartenere a un simile Re. Per ammettere che, in fondo, la vita merita di essere interpretata soltanto così, come una chiamata a uscire da noi stessi per fare di quello che siamo un dono, senza ritrattazioni e senza condizioni. Per quanto molte situazioni della vita ci trovino pavidi e ipocriti, mediocri e peccatori, resta sempre un «altro» in noi, un tratto di umanità irriducibilmente regale, un nobile sangue che ha voglia non tanto di essere preservato dai rischi e dai pericoli, ma di essere liberato «dal potere delle tenebre» e di essere trasferito, già in questo mondo, «nel regno del Figlio del suo amore» (Col 1,13). Ai piedi del Crocifisso povero e glorioso, il vero Re dell’universo, in questa domenica anche noi siamo invitati a ungere il Figlio di Dio come nostro unico re, esclamando con gioia: «Ecco noi siamo tue ossa e tua carne» (2Sam 5,1), il tuo «corpo» (Col 1,18) che è la Chiesa. L'anno della misericordia si chiude per farci spalancare le porte del desiderio di «regnare con» lui «nella giustizia e nell’amore» e poter, finalmente, donare «la nostra vita per amore dei fratelli, certi di condividere la sua gloria in paradiso» (cf. Colletta). 

Commenti