DEGNI DI VITA ETERNA

IV Domenica di Pasqua – Anno C
La domenica del “buon Pastore” è per la comunità dei credenti un tempo intermedio tra la festa di Pasqua e quella di Pentecoste nel quale è necessario verificare in che modo il mistero della risurrezione del Signore Gesù si sta diffondendo «per tutta la regione» (At 13,49) della nostra vita e del corpo ecclesiale in cui siamo innestati attraverso il battesimo. Del resto, sono le stesse letture scelte dalla liturgia a condurci verso la contemplare del volto di Cristo come Pastore e come Agnello. Anzi, come Pastore perché, anzitutto, Agnello. 

Singolare gioia
Il racconto degli Atti documenta un’esperienza di intima e autentica gioia a cui i discepoli sono stati condotti dallo Spirito del Risorto dopo numerose e non trascurabili prove, durante le quali è maturata la coscienza della loro nuova identità e dignità di figli di Dio. Per Paolo (e Bàrnaba) è stato un istinto piuttosto naturale quello di tentare un primo, appassionato annuncio del vangelo ai fratelli a cui erano legati dalla comune fede nel Dio di Israele. Eppure, l’autore degli Atti dichiara apertamente il sorgere di una crescente ostilità verso l’annuncio del Regno proprio da parte di coloro che erano più qualificati e preparati a poterlo accogliere: «Quando videro quella moltitudine, i Giudei furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo» (At 13,45). Anziché chiudersi o ostinarsi di fronte a questo reiterato rifiuto da parte di quei Giudei che restano impermeabili al vangelo di Cristo, gli apostoli si aprono a una lettura profonda della realtà. Alla luce della Pasqua, si scoprono capaci di cogliere dentro un fallimento un’opportunità che dischiude e prepara uno scenario ancora più grande nel quale Dio può continuare a operare salvezza: «Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani» (13,46). La conferma che non si tratti soltanto di una capacità di fare buon viso a cattivo gioco è espressa dal grado di consapevolezza con cui Paolo accetta una vocazione diversa rispetto a quella che si era immaginata: «Così infatti ci ha ordinato il Signore: “Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”» (13,47). In questo modo «si diffondeva» (13,49) l’evento della Risurrezione nella prima era apostolica: nella carne di uomini e donne che si scoprono capaci di gioire per il fatto di essere illuminati e non rassegnati per il fatto di non essere luminosi nei modi e nei tempi in cui avrebbero voluto esserlo: «I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo» (13,52).

Universale consolazione
La gigantesca visione di «una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare» nel santuario del cielo a cui accede il veggente di Patmos sembra incarnare questa grande libertà interiore che la prima chiesa ha sperimentato. I risorti in Cristo che hanno passato «la grande tribolazione» in questo mondo e hanno imparato a lavare «le loro vesti, rendendole candide col sangue dell’Agnello» (Ap 7,14) vengono descritti in un atteggiamento di grande fierezza e di gioiosa dignità nel libro dell’Apocalisse: «Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani» (7,9). Tanta è stata la gioia della Pasqua per i primi cristiani da accendere una grande e universale speranza per tutti coloro a cui la salvezza di Dio è destinata. La tribolazione attraverso cui i redenti sono passati non va immaginata necessariamente come l’esperienza di un martirio cruento, sebbene il riferimento al sangue dell’Agnello conduca il pensiero in questa direzione. Si allude più semplicemente — ma anche più profondamente — a tutti coloro che hanno imparato a non rimanere concentrati su se stessi ma su colui che — con la sua vita e con la sua morte — sa guidare tutti «alle fonti delle acque della vita» (7,17). Quella «lacrima», che così facilmente riesce a percorrere improvvisamente il nostro viso e a irrigare i deserti della nostra anima, un giorno sarà per sempre asciugata perché un giorno, finalmente, non esiteremo più a essere — noon solo a dirci — figli di Dio. Ecco perché i redenti sono raffigurati «in piedi» e non prostrati, in questa domenica: perché il tempo di Pasqua ci è donato proprio per imparare a rialzarci da ogni sconfitta e da ogni tristezza, porgendo l’orecchio lontano dalla voce dei sensi di colpa, verso quella del pastore buono. 

Irriducibile comunione
«Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono» (Gv 10,27). Sembra assolutamente sicuro di sé e di noi Gesù nel pronunciare queste parole, con una leggerezza che consola e accarezza il nostro incedere spesso incerto e faticoso. Eppure questo sguardo incantato su di noi è la luce che, in attesa della Pentecoste, anche noi dobbiamo abituarci ad accogliere e a gustare. Riconoscere e preferire la voce del Figlio non vuol dire altro che rimanere, dolcemente, aggrappati alla sua testimonianza, in grado di dirci — e ricordarci — chi siamo e restiamo di fronte a Dio, dentro e oltre qualsiasi fallimento: «Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano» (10,28). Il mistero pasquale che continuiamo a celebrare nella fede è un dono che colloca la nostra vita in una mano sicura e stabile, quella del Padre il cui volto è ormai lo specchio nel quale possiamo imparare a scrutare tutti i nostri lineamenti, per essere capaci di accogliere ugualmente anche quelli dei nostri fratelli. Se nessuno può più strapparci «dalla mano del Padre» (10,29) — come desideriamo credere con tutto il cuore — è altrettanto vero che ogni giorno siamo esposti a terremoti, scosse e sommovimenti che mettono alla prova la nostra capacità di rimanere in comunione e in pace, rispetto a quello che siamo e a quello che ci ritroviamo a essere. Ma i figli restano degni anche quando sono turbati e scossi, perché non c’è discordia in quel cielo dove è la nostra ultima dimora: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (10,30). 

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