DOPO IL TRAMONTO

II Domenica di Quaresima – Anno C
Siamo entrati nel deserto della Quaresima insieme al Signore Gesù per incontrare le nostre tentazioni e imparare a combatterle sostenuti dallo Spirito. Abbiamo accolto l’invito a usare parte del nostro tempo per fare un po’ di verità dentro nel recinto sacro della nostra coscienza e della nostra libertà. Attraverso la preghiera, il digiuno e la carità la Chiesa ci regala un’occasione per separarci dalle tentazioni che, quotidianamente, ci assediano: farci possedere dai nostri bisogni, impadronirci degli altri, piegare la volontà di Dio ai nostri progetti. Dopo i primi dieci giorni di viaggio, quando la fatica comincia a farsi sentire, è necessario recuperare subito il perché restare nella buona battaglia della fede. Perché «è bello» (Lc 9,33), troppo bello, colui che vogliamo più profondamente incontrare. 

In disparte
Il Maestro Gesù decide di salire su un «monte» (Lc 9,28), per dedicarsi a una preghiera più raccolta e intensa. Prende con sé solo alcuni dei discepoli, «Pietro, Giovanni e Giacomo» (9,28). In Galilea — duemila anni fa come oggi — i posti per stare in disparte sono offerti in abbondanza dalla natura ospitale e verdeggiante. Non c’è bisogno di grandi spostamenti o compiere faticose arrampicate per fare silenzio e ritrovarsi a tu per tu con Dio. Eppure il Signore sente il bisogno di salire in cima al monte per vivere un momento speciale dove incontrarsi col volto del Padre. In questo spostamento geografico, possiamo cogliere già un richiamo indispensabile per portare avanti la nostra conversione. La preghiera ha bisogno — almeno di tanto in tanto — di compiersi nel silenzio e in un luogo appartato. È vero che la vita cristiana è un’esperienza di comunione che ci spinge a costruire rapporti fraterni con gli altri e con il mondo, che la preghiera fatta insieme ai fratelli è splendida e nutriente. Ma è altrettanto vero che ciascuno di noi ha un rapporto unico e personale con Dio, e porta nel cuore il desiderio di conoscere personalmente — cioè nella libertà — il suo mistero di amore. Così come esiste una dimensione comunitaria della vita cristiana, ne esiste pure una personale. Il bisogno di vivere momenti di preghiera in solitudine nasce dal fatto che solo Dio conosce in verità il nostro volto e solo dentro una certa intimità può rivelarci il suo. Questo è il segreto di tutte coloro che si amano e sanno quanto sia necessario avere occasioni per incontrarsi e ri-conoscersi nell’intimità. Volto a volto. Cuore a cuore.

Nella gloria
Restare in solitudine non è tuttavia esperienza facile. La nostra società, che pone tutto sulla bilancia dell’efficacia o del tornaconto, certo non ci aiuta molto a coltivare spazi di meditazione e di preghiera. Ma il vangelo racconta che, proprio nella solitudine della preghiera, si può manifestare qualcosa di veramente unico e speciale. Mentre il Signore Gesù «pregava , il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante . Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme» (9,29-31). Era notte e i discepoli, seppur «oppressi dal sonno», si svegliano e vedono «la sua gloria» (9,32), al punto da non poter che esclamare, per bocca di Pietro: «Maestro, è bello per noi essere qui» (9,33). La “gloria”, nel linguaggio biblico, è il peso specifico di una certa realtà, la sua effettiva rilevanza, il suo spessore di verità. Noi tutti, a causa del «peccato», siamo «privi della gloria di Dio» (Rm 3,23). Ci manca, cioè, la percezione della rilevanza di Dio, l’intuizione della sua verità, della sua bellezza, della sua necessità per essere vivi e felici. I discepoli, sul monte, si trovano proprio di fronte alla manifestazione improvvisa di questa gloria che cambia il volto del loro Maestro e fa diventare i suoi abiti come un sole che brilla. Se la Quaresima non può cominciare senza la nostra disponibilità a metterci un po’ in discussione, è altrettanto vero che non può nemmeno continuare senza l’intuizione di quanto la bellezza di Dio sia tutto ciò che il nostro cuore assetato sta disperatamente cercando.

Dopo il tramonto

Recuperare un’intuizione grata e felice di Dio è quanto di più urgente ci serve, per avere la forza di obbedire a Cristo, per dare fiducia ai suoi insegnamenti, per mettere la nostra vita dietro ai suoi passi, come la voce del Padre invita a fare: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo»  (Lc 9,35). Il cammino attraverso cui Abram giunge a credere alla bellezza delle promesse di Dio ci ricorda, però, come l’accesso all’intimità di cuore con Dio non possa che avvenire quando è calato — definitivamente — il sole sui nostri umani sguardi, con cui siamo soliti misurare e gustare la realtà. Dopo aver annunciato al suo servo una discendenza numerosa come le stelle del cielo, il Signore Dio sembra quasi mettere alla prova la fiducia di Abram, sfidandolo sul bisogno di dominare lo scenario del futuro: «Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra» (Gen 15,7). Il santo patriarca è molto lucido e, intercettato nel bisogno di sentire o toccare un pegno della promessa di Dio, subito domanda: «Signore Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?» (15,8). Il racconto si diffonde sul rituale di offerta di animali divisi e collocati a terra, che restano cadaveri esposti allo sciacallaggio fino al tramonto del sole: «Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi» (15,17). Per incontrare la bellezza — ardente e fiammante — dell’amore di Dio, anche noi dobbiamo lasciare che la nostra offerta rimanga sdraiata fino al completo tramonto del sole. Solo così possiamo abituarci a credere che dentro la morte esiste la realtà della risurrezione, nel cuore delle tenebre l’amore di Dio per tutte le sue creature. Tutta la bellezza della Pasqua verso cui, questa domenica, riprendiamo con gioia il cammino. 

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