QUALSIASI COSA

II Domenica del Tempo Ordinario – Anno C
La ripresa del tempo ordinario ci regala l’occasione di meditare «sull’inizio dei segni», con cui Gesù di Nazaret cominciò a manifestarsi al mondo con la «sua gloria» (Gv 2,11) di Figlio di Dio. Prima di avventurarci in un nuovo anno liturgico, accompagnati dall’evangelista Luca, in questa domenica ascoltiamo una pagina splendida e celebre tratta dal vangelo di Giovanni: le nozze di Cana.

Stranezze
I fatti sono piuttosto noti: «la madre di Gesù» (2,3) sta partecipando a un banchetto nuziale «a Cana di Galilea» (2,1), a cui è stato invitato anche il Maestro con i suoi primi discepoli. Tutto a un tratto viene «a mancare il vino», un’autentica tragedia per una festa di nozze. La madre, premurosamente, fa notare la cosa al figlio: «Non hanno vino» (2,3). Gesù sembra dare una risposta un po’ sgarbata: «Donna che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora» (2,4). La madre propone ai «servitori» di dare fiducia a Gesù. Lo fanno, riempiendo sei giare di acqua che, provvidenzialmente, verranno gustate dal direttore del banchetto come «vino buono» (2,10). Sembra, a prima vista, la cronaca di un miracolo, uno dei tanti gesti prodigiosi compiuto dal Signore Gesù in questo mondo. Osservato con più attenzione, però, il racconto è pieno di particolari curiosi: la sposa non compare mai, lo sposo soltanto per ricevere i complimenti quando appare il vino buono, le giare sono sei (cioè il numero della perfezione meno uno) e gigantesche (circa seicento litri complessivamente), c’è un antipatico dialogo tra Gesù e Maria e, dulcis in fundo, il prodigio è solo accennato, peraltro in una frase secondaria («E come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino...» 2,9). Infatti, di miracolo non si tratta. Giovanni, scrivendo un vangelo molto particolare, lo presenta come «l’inizio dei segni compiuto da Gesù» (2,11). La differenza tra un miracolo e un segno è fondamentale. Mentre il primo è un’improvvisa e fluorescente interruzione dell’ordine naturale della realtà, il secondo è piuttosto l’emergere — talvolta improvviso — di un significato profondo della realtà che non luccica e non si impone, ma tocca e mette in moto la nostra libertà. Secondo Giovanni, il Signore Gesù non ha compiuto miracoli, ma segni. Ha, cioè, manifestato con gesti e parole l’irruzione del regno di Dio dentro la vicenda umana, lasciando a noi la possibilità di interpretare la luce discreta di questi segni. 

La madre e i servi
Lo scambio di battute tra Maria e Gesù non sembra certo il migliore dei dialoghi possibili tra una madre e un figlio. Facciamo fatica a capire cosa voglia dire il Signore Gesù con le parole brevi e secche con cui risponde alla preoccupazione della madre: «Che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora» (2,4). Una diversa traduzione di questo versetto — molto apprezzata e utilizzata in antichità nelle chiese orientali — pone un punto di domanda anche alla fine della seconda frase: «Non è ancora giunta la mia ora?». La traduzione è legittima, visto che i punti di domanda nei testi originali in greco non sono scritti, per economia di spazio. In tal modo la frase assume una sfumatura diversa. Gesù non starebbe liquidando Maria, ma le starebbe ponendo un interrogativo. Avvertendo che ormai l’ora della sua manifestazione al mondo è giunta, Gesù chiede a sua madre se è disposta a mettersi da parte per divenire nuovamente «donna», dopo essere stata sua «madre». Maria capisce, accetta e dice ai servi: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (2,5). Non teme, la madre, di perdere qualcosa consegnando il Figlio al mondo. Non ha paura di spezzare i vincoli della carne, per aprirsi ai legami dello spirito. Anzi, è felice di rivelare il segreto della sua maternità: obbedire alla parola di Dio, dare fiducia a quello che il Signore dice è la strada per permettere alle sue opere di compiersi e per contemplare la sua gloria. Questo è quello che fanno i servitori, mettendo in pratica un comando piuttosto stravagante: riempire grosse giare con seicento litri d’acqua (mentre quello che manca alla festa è il vino). Eppure, proprio attraverso quest’obbedienza fiduciosa, le nozze tornano a essere una festa, a cui non manca «il vino buono» (2,10) della gioia.  

Il segno
Il segno di Cana è celebrato questa domenica come una luce che vuole raggiungere anche la nostra vita. Nel quadro di queste nozze compromesse in cui torna la gioia, siamo invitati a rileggere tutta la la nostra storia. Ogni vita, in un modo o nell’altro, è come una festa che a un tratto entra in crisi. Possiamo fingere per un po’ che non sia vero, racimolare i nostri migliori istinti, organizzare le residue forze della nostra volontà, ma lo scacco è, prima o poi, veramente matto. Perché sempre la vecchiaia viene dopo la giovinezza, la fatica dell’amore dopo l’ebbrezza dell’innamoramento, il tradimento e la solitudine dopo l’intenzione della fedeltà. Più radicalmente, perché la morte è l’orizzonte entro cui si iscrivono le migliori promesse a cui possiamo tendere. Ma il segno dell’acqua diventata vino, che restituisce il meglio alla fine della festa, ci ricorda che la presenza di Dio in questa avventura del vivere umano è capace di rovesciare le sorti. Il segno di Cana ci dice che alla fine non c’è la la fine, ma l’inizio di una felicità più grande. Il nostro destino non è né la solitudine né il divorzio, ma «la gioia delle nozze eterne» (cf. Colletta) con Dio, come i profeti già cantavano: «Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioie e la tua terra Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo» (Is 62,4). Dio però non rovescia le sorti con la bacchetta magica, ma con l’assenso della nostra libertà alla sua voce. Nella misura in cui diciamo «» ai suoi innumerevoli inviti, sparsi nelle nostre giornate, trasformiamo la storia ridandole il sapore della festa. Non è detto che a noi tocchi sempre gustare il ritorno del vino (come non accade, infatti, ai servi), che magari è destinato a ridare gioia ad altri. Sempre, però, a coloro che obbediscono a Dio è riservato un incremento di fede, che è la gioia più bella e profonda che si possa sperimentare in questo mondo: «(Gesù) manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui»(Gv 2,11).

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