(IN)ESPERTI DI CIBO

XXI Domenica del Tempo Ordinario – Anno B
Giunti (quasi) al termine del lungo discorso sul Pane di vita, che ha scandito il passo di questo tempo estivo, la liturgia di questa domenica ci offre un’inedita prospettiva per concludere la riflessione sul mistero di un Dio così amante dell’uomo da voler essere suo nutrimento e sua sostanza. Saper accogliere, senza troppo discutere, l’offerta di amore del Verbo fatto carne, non è questione di raffinata teologia, ma indice di provata sapienza: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza» (Pr 9,5-6). 

Vivi
Se vogliamo accogliere la provocazione lanciata dal libro dei Proverbi, dobbiamo provare a chiederci come sia possibile che una nostra difficoltà di fronte al dono dell’eucaristia — cioè rispetto alla logica di una vita immersa in una reale e profonda comunione con Dio — possa essere descritta come inesperienza. Dopo tutte le celebrazioni in cui abbiamo (con)celebrato il mistero di Cristo insieme ai fratelli, certo, ci sarà sicuramente qualche dettaglio liturgico o teologico che ancora sfugge alla nostra comprensione. Ma la sostanza del rito dovrebbe essere ormai assodata e assimilata. Il discorso di Gesù ci dovrebbe essere chiaro fin dai giorni della nostra iniziazione alla fede: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51). Eppure, la reazione dei Giudei, che si mettono a «discutere aspramente fra loro» attorno a questa ardita affermazione, dovrebbe riuscire a turbare un po’ il nostro cuore: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?» (6,52)? L’abitudine — sacrosanta e indiscutibile — di celebrare ogni domenica il mistero eucaristico ha forse attenuato in noi lo sconcerto nei confronti del suo significato: «Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia (lett. mastica) la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (6,54). La vita, il bene di cui godiamo e disponiamo da quando esistiamo, è l’unica cosa che sembra essere non solo a nostra disposizione, ma anche quella di cui ci sentiamo indiscussi autori e interpreti. Siamo davvero convinti che, se non mastichiamo la carne del Figlio dell’uomo e se non beviamo il suo sangue, non solo ci manca qualcosa, ma addirittura non siamo nulla?!

Inesperti
Se vogliamo essere sinceri, dobbiamo riconoscere che questaè la nostra inesperienza di fronte all’eucaristia: essere così tanto familiari alla sua pratica, ma ancora così distanti da averne fatto un’esperienza gioiosa e indimenticabile. Come quando abbiamo pranzato o cenato in un posto dove abbiamo mangiato così bene che non ce lo dimentichiamo più. Per questo, spesso, nelle nostre assemblee domenicali ci raduniamo, ripetiamo in modo meccanico parole e gesti, ci sforziamo di fare ogni cosa con dignità e decoro, ma qualcosa continua a non funzionare. Mancano quei segni semplici ed eloquenti che accompagnano un bell’avvenimento: la contentezza dei volti, l’armonia delle voci, la soddisfazione dei cuori. Quello che invece si vede ad esempio in altre mense, decisamente meno importanti ma largamente più diffuse: un ristorante, un bar, un pub. Questi luoghi, dove avviene proprio quello che accade in chiesa — ci si ritrova, si sta insieme, si mangia e si beve — sembrano avere una marcia in più. Sembrano essere persino più autentici, perché quello che essi propongono ha una felice corrispondenza con ciò che in essi accade. Le nostre celebrazioni invece difettano di autenticità: propongono più di quello che realmente offrono. Si candidano come l’occasione di entrare in comunione con il Dio vivente, mentre appaiono agli occhi del mondo come liturgie stanche, annoiate, prive di entusiasmo e di partecipazione. Come un vecchio ristorante, dotato di splendide insegne e sontuosi arredamenti, ma purtroppo mezzo vuoto e poco invitante. Il problema, afferma il libro dei Proverbi, non è che siamo cattivi o infedeli. È che crediamo di sapere già tutto, mentre dovremmo tornare in chiesa ogni domenica per celebrare la nostra inesperienza: «Chi è inesperto venga qui!» (Pr 9,4). 

Rimanenti
Per tornare a crescere nell’esperienza che il pane di Dio vuole offrirci dobbiamo essere disposti ad affrontare le illusioni e a ridefinire le aspettative rispetto a quello che il mistero della fede può donarci. Le parole di Gesù, come sempre, sono pronunciate per rivelare e illuminare le tenebre che restano nel cuore: «Chi mangia (lett. mastica) la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui» (6,56). Ecco ciò che accade quando ci nutriamo di Cristo: rimaniamo insieme, come indistruttibiil amici, come intramontabili amanti. Questo accade ogni volta che accogliamo con fede il Pane di vita, anche nel sacramento dell’eucaristia. Il desiderio di Dio è infatti questo: rimanere in noi, dentro la nostra storia fatta di luci e ombre, sorrisi e sofferenze. Come un amico fedele, che vuole conoscere e condividere tutto quello che noi siamo e ci ritroviamo a essere. Rimanere insieme, del resto, è sufficiente a condurre ogni relazione a compimento, perché quando si sta uniti si diventa una cosa sola: «Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me» (6,57). Anche noi, nella misura in cui restiamo in Cristo possiamo imparare a vivere per lui, permettendo alla logica del vangelo e alla forza del suo Spirito di condurci su strade inedite di passione e di risurrezione. Se acconsentiamo gioiosamente al dono di Dio, il suo corpo può gradualmente trasformare il nostro «modo di vivere» (Ef 5,15), insegnandoci a fare «buon uso del tempo» (5,16) e a «comprendere qual è la volontà del Signore» (5,17) che possiamo compiere «ricolmi dello Spirito» (5,18) e della sua forza. Questa è l’esperienza che ci manca e che sempre ci è donata: imparare a nutrirci di un Dio così bello da preoccuparsi maggiormente della nostra vivibilità che della sua visibilità. Sentirci così a nostro agio in lui e come lui da poter tornare a essere, per un mondo assai esperto di alimentazione, ma ignaro di risurrezione, il più struggente e appassionato degli inviti: «Gustate e vedete com’è buono il Signore» (Salmo responsoriale). 

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