RE(G)ALE ABBANDONO

Venerdì Santo – In Passione Domini
Comincia in silenzio la liturgia del venerdì santo. Con i ministri sdraiati a terra, prostrati e adoranti. Polvere e silenzio ci sono necessari per poterci accostare al trono della croce e riconoscere in esso non un luogo di fatale sconfitta, ma un segno di misteriosa vittoria. 

«Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, 
esaltato e innalzato grandemente» (Is 52,13)

Sembra impossibile guardare un patibolo e comprenderlo come un palcoscenico di amore infinito e libero. Eppure la voce di Isaia è raggiunta e rilanciata anche da quella dell’autore della lettera agli Ebrei. Le due letture cospirano fino a creare una sinfonia di rivelazione assordante e irresistibile. 

[Cristo] nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, 
con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte 
e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito (Eb 5,7)

Non si può non restare attoniti e sgomenti di fronte a queste parole. Esaudito? Come? In che modo Dio ascolta e — soprattutto — esaudisce le preghiere? Se il Padre non ha risparmiato la morte al suo Figlio, come si comporterà con noi quando gli offriremo ancora le nostre lacrime, quando grideremo a lui tutta la paura che resta?

Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì
e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna
per tutti coloro che gli obbediscono (5,8-9)

Mentre noi proviamo a cercare —   persino in cielo — le cause delle cose che ci capitano e ci segnano, mentre usiamo ancora la preghiera per manipolare o comprendere la realtà, il destino del servo di Dio annuncia che siamo ascoltati meglio e più profondamente di quanto immaginiamo. Dobbiamo solo convertirci e accettare il fatto che la preghiera non serva per ottenere cose, ma per crescere nella relazione con Dio. Giungendo al fondo della sua preghiera, il Signore Gesù non ha svelato i motivi del male e della sofferenza, ma è diventato “causa” di salvezza. A questo serve pregare: smettere di chiedere — a noi e a Dio — “perché?” e accettare di diventare noi la “causa” che manca. 

«Ecco l’uomo» (Gv 19,5)

Questo è l’uomo pensato da Dio. Non quello terrestre, sempre così incline a salvarsi la pelle, ma quello celeste capace di dare vita agli altri. Così «è compiuto» (19,30) l’uomo. Non quando tutti i suoi bisogni sono soddisfatti, le sue necessità sono risolte, ma quando egli è capace di accettare il limite così tanto da poterlo attraversare e celebrare.

«Ho sete» (19,28) 

Muore assetato il Figlio di Dio. Assetato di noi. L’aceto che gli viene offerto è vino incerto,  adulterato. Si estingue così la sete di Dio, con quello che noi — di fatto — siamo: uomini e donne incerti, ancora incapaci di amore vero e di fedeltà. Eppure sufficienti a un Dio che muore per dirci che senza di noi proprio non si può fare. Per questo noi oggi baciamo la croce. Per poter abbracciare come un trono e come un talamo tutto il limite dal quale ancora stiamo fuggendo. Dopo averci ricordato che possiamo realmente essere presenti nella nostra storia, oggi il triduo pasquale ci annuncia che possiamo re(g)almente abbandonarci all’avventura di essere umani fino in fondo. Come terra assetata, arida, deserta. Prossima a risorgere. 

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