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III Domenica del Tempo di Pasqua – Anno B
I racconti di apparizione del Risorto attestano concordi quanto non fu facile per i primi discepoli diventare «testimoni» (At 3,15; Lc 24,48) gioiosi e convinti della Pasqua. Diciamolo subito: la risurrezione di Cristo — che dichiara possibile anche la nostra — sembra una notizia troppo bella per essere vera. La difficoltà della Risurrezione non sta nelle sue irragionevoli premesse, ma nelle sue “incredibili” conseguenze. Ai discepoli di ogni tempo è affidata la responsabilità di aggiungere un’imprescindibile tessera al mosaico: la realtà del Crocifisso risorto, l’avversativa di Dio che ci libera da noi stessi.  

Ma Dio
Pietro deve aver vissuto una grande trasformazione interiore per arrivare a essere così libero di fronte al popolo di Israele da poter dire: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che vi fosse graziato un assassino. Avete ucciso l’autore della vita [...]» (3,13-15). Per ben due volte, Pietro ricorre a quell’odioso verbo — rinnegare — che ha tragicamente segnato la sua esperienza tre volte durante la notte dell’arresto di Gesù nel Getsemani. Come può ora, con tanta libertà, ripetere il nome del suo fallimento e farlo diventare un perentorio giudizio verso gli altri? Cosa è successo tra quella notte e questo giorno? Lo sappiamo: il fuoco della Pentecoste (At 2,1-13) ha trasformato Pietro in un peccatore perdonato, ha svuotato il suo cuore dai sensi di colpa e lo ha colmato della gioia di essere salvato. Infatti, la lunga reprimenda dell’apostolo non vuole colpevolizzare nessuno, ma annunciare con forza l’opera di Dio: «[...] ma Dio l’ha risuscitato dai morti: noi ne siamo testimoni» (3,15). Per questo ribadisce di nuovo lo stesso concetto: «Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi. Ma Dio ha così compiuto ciò che aveva preannunciato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo doveva soffrire» (3,17-18)

Ma se
Nelle parole di Pietro — così veementi e libere — possiamo riconoscere l’esperienza vissuta dai primi testimoni del Risorto, la traiettoria della loro “vera conversione” (cf. colletta anno B). Se in quaresima sorge sempre il sospetto che convertirci significa modificare la situazione della nostra vita — sempre così pessima ai nostri occhi — il tempo di Pasqua ci ricorda che la conversione vera è accettare la centralità di Dio e il suo modo folle di salvarci non attraverso la condanna del peccatore, ma attraverso il perdono dei peccati. Questo è il grande annuncio che Pietro fa risuonare dentro i confini stanchi e consumati del giudaismo: «Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati» (3,19). Questa è pure l’esperienza di misericordia che traspare dalla prima lettera di Giovanni: «Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto» (1Gv 2,1). Se il dono della risurrezione si è sempre tradotto nella vita dei discepoli come possibilità e forza di vivere lontani dai peccati, non dobbiamo dimenticare che esso è stato subito intuito anche come possibilità di vivere ogni cosa — anche il peccato — in(sieme a) Cristo. L’esperienza racchiusa in questa lettera e in queste lettere è la coscienza di non dover più affrontare nulla da soli, nemmeno il ritorno nelle tenebre e nella solitudine del peccato. Perché il “ma” di Dio è più forte e decisivo di ogni nostro fallimento.

Ma egli
Proprio questo grande vangelo, Gesù risorto inizia a offrire ai suoi amici, ancora avvolti nella spirale del senso di colpa. Dopo aver incontrato i due discepoli di Emmaus, «Gesù in persona» si presenta a tutti gli altri discepoli riuniti insieme, e rivolge a loro un meraviglioso saluto: «Pace a voi!» (Lc 24,36). La reazione dei presenti è perlomeno strana: «Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma» (24,37). Gesù stesso li interroga su questo punto: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?» (24,38). Già, perché essere turbati e dubbiosi, arrivando persino a ritenere la sua presenza simile a quella di un fantasma? Forse perché questo era, in qualche modo, specchio del rapporto che i discepoli avevano saputo costruire con lui. Pur conoscendolo, seguendolo, amandolo, Gesù era ancora un fantasma per loro. Su di lui avevano proiettato i loro sogni e bisogni, ma non erano ancora riusciti ad accogliere la sua parola e la sua vita. La logica delle beatitudini non era diventato nutrimento del cuore. Per questo credono più ai loro fantasmi che alla realtà. Allora Gesù decide di spostare lo sguardo dei discepoli proprio verso le sue piaghe: «Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho» (24,39). I discepoli impazziscono dalla gioia e proprio questa esplosione emotiva — non la paura — sembra essere il principale ostacolo alla fede. Il Signore mangia davanti a loro (24,42-43) e poi apre le loro menti all’intelligenza delle Scritture (24,44-27). Per poi annunciare un incredibile destino, a cui nessuno discepolo è capace di sottrarsi: «Di questo voi siete testimoni» (24,48). Ecco cosa fa lo Spirito del Risorto nel tempo di Pasqua, sempre e solo questo: aggiunge un “ma” al libro della nostra vita. Nell’attesa che il nostro cuore gioisca per questo vangelo, riconosca che l’opera di Dio conta più della nostra inconsistenza. E noi, quasi senza accorgercene, diventiamo spettatori e testimoni di una creazione nuova. Quella in cui il paradossale ritmo dell’amore — lento, bello, invincibile — è capace di rendere sinfonia il rumore del mondo. 

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