ESORTAZIONE

Giovedì – IV settimana del Tempo di Pasqua
La liturgia di oggi sembra confezionata appositamente per donarci «qualche parola di esortazione» (At 13,15). In effetti di parole sia Paolo, sia Gesù ne dicono tante nei loro discorsi rivolti, rispettivamente, ai fedeli presenti nella sinagoga di Antiochia di Pisidia e ai discepoli durante la loro ultima cena insieme con il Maestro. Tuttavia, a ben guardare, la parola che anima questi pregnanti monologhi è una sola, ben colta dal salmo che ci fa cantare «in eterno l’amore del Signore». 

«Uomini d’Israele e voi timorati di Dio, ascoltate. 
Il Dio di questo popolo d’Israele scelse i nostri padri...» (At 13,16-17)

Inizia così la memoria mirabilia Dei che Paolo lascia fluire dal suo cuore, ormai purificato e infiammato dalla grazia della conversione al Signore Gesù. Proprio a partire da quest’ultimo, definitivo dono di Dio all’umanità, l’apostolo è capace di rileggere tutta la storia d’Israele come una successione, senza soluzione di continuità, di premurosi regali ricevuti e immeritati: l’esodo dall’Egitto, il cammino del deserto, l’ingresso nella terra, l’assistenza di Giudici e Re. Infine il Salvatore, il dono dei doni, che però si può accogliere nella misura in cui si è preparati a riceverlo. Meglio, a desiderarlo. Con l’incrollabile fiducia che la nostra terra meriti di essere sposata. 

«Diceva Giovanni sul finire della sua missione: 
“Io non sono quello che voi pensate!
Ma ecco, viene dopo di me uno, 
al quale io non sono degno di slacciare i sandali”» (13,25)

Anche Gesù, sembra preoccupato di istituire opportune distinzioni tra servo e padrone, cioè tra la sua esperienza e quella dei discepoli. Lo scopo di quest’altra parola di esortazione non è però quello di far brillare la sua divina statura, ma di porre un freno al nostro — spudorato — tentativo di elevare la nostra al di sopra della sua. Inutile sollevamento sulle punte dei piedi che pratichiamo non tanto per sentirci immensi, quanto per evitare le conseguenze della libertà. 

«In verità, in verità io vi dico: un servo non è più grande del suo padrone,
né un inviato è più grande di chi lo ha mandato» (Gv 13,16)

E invece — questa è l’ultima esortazione — è davvero enorme la nostra dignità e la nostra statura agli occhi del Signore. Dopo averci strappato di mano l’illusione di poter manipolare l’amicizia con lui al fine di sottrarci alla fatica dell’amore, Gesù conclude il suo discorso con un altro, duplice «amen» («in verità»). La solenne introduzione è d’obbligo quando bisogna consegnare al cuore l’ultima e più profonda delle esortazioni, l’invito a credere che mai più la nostra terra sarà detta abbandonata. Proprio la nostra povera dimora è ciò di cui Dio vuol aver bisogno per essere accolto dagli altri suoi figli, i nostri fratelli. 

«In verità, in verità io vi dico: chi accoglie colui che io manderò, accoglie me;
chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato» (13,20)

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