DEBOLEZZA DI DIO

III Domenica – Tempo di Quaresima (B)
Il gesto profetico con cui il Signore Gesù, in prossimità della Pasqua dei Giudei, decide di purificare il tempio di Gerusalemme cacciando via i mercanti dall’atrio non sembra meno forte e deciso del tono con cui la Colletta interpreta questa liturgia quaresimale: «Signore nostro Dio, santo è il tuo nome; piega i nostri cuori ai tuoi comandamenti e donaci la sapienza della croce, perché liberati dal peccato, che ci chiude nel nostro egoismo, ci apriamo al dono dello Spirito per diventare tempio vivo del tuo amore». Umilmente — ma anche lucidamente — chiediamo a Dio di trasformare il nostro cuore, per uscire finalmente da noi stessi e aprirci alle logiche e ai rischi dell’amore vero. Senza attendere di sapere o di vedere altro se non la croce del Signore. 

Potenza
Dopo averci condotto nella silenziosa povertà del deserto, dove è emerso «quello che c’è nell’uomo» (Gv 2,25), e poi sul mistico monte della trasfigurazione, dove si è manifestata la grande fiducia del Padre nell’umanità assunta dal Figlio, la liturgia imprime un’accelerazione al cammino quaresimale portandoci nel luogo sacro per eccellenza, dove appare quale culto e quale umanizzazione il popolo sta vivendo di fronte a Dio. Qui Gesù, divorato dallo «zelo» e acceso da un incontenibile moto d’ira, reagisce con veemenza al triste spettacolo di una casa di preghiera ridotta a emporio del sacro: «Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio» (2,15). Le parole che accompagnano questo gesto profetico ci permettono di capire l’origine di tanta incontenibile rabbia: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!» (2,16). A partire dal suo dolcissimo rapporto filiale con Dio — su cui insiste particolarmente il quarto vangelo — Gesù non può che interpretare come una drammatica deformazione una ritualità religiosa alimentata da mentalità di tipo economico. Non solo perché le logiche di mercato sono profondamente incompatibili con la gratuità sui cui si fondano le relazioni autentiche, ma ancor più perché l’idea di doversi presentare a Dio con un’offerta acquistata esprime la non accettazione di quella personale e radicale povertà che è chiamata a entrare in alleanza con la «potenza di Dio» (1Cor 1,24). Che perdiamo il diritto — almeno di fronte a lui — di poterci presentare in tutta la nostra debolezza — senza doverci agghindare o ritoccare — questo Dio proprio non può accettarlo.  

Debolezza
Il Signore Gesù si adira profondamente davanti ai segni di una religiosità costruita sulla rimozione anziché sull’accettazione della realtà, dove uno si vede costretto a riempirsi le mani di regali invece di consegnare la verità di quello che è, o si trova — suo malgrado — a essere. Le parole dell’apostolo Paolo ai cristiani di Corinto sono testimonianza di quel diverso modo con cui Cristo ha interpretato l’avventura della nostra umanità, non come un luogo da riempire di beni superflui, ma come un tempio in cui la «debolezza» (1,25) non solo è pienamente accolta ma anche celebrata: «Mentre i Giudei chiedono segno e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani» (1,23). Prima di essere manifestazione dell’amore più grande, la croce rivela l’assoluta mitezza con cui il Verbo ha scelto di portare avanti la logica dell’incarnazione. Mentre Dio, facendosi uomo, ci ha definitivamente trovato, noi continuiamo a cercare segni e insegnamenti per sentirci più forti e sicuri. Dimenticandoci che, non solo possiamo smettere di cercare, ma è persino giunto il tempo in cui possiamo annunciare lo scandalo e la stoltezza di un Dio che, per amore, è disposto a morire. Con la nostra vita che lo accoglie, lo celebra, lo mostra. 

Libertà
A metà di questo itinerario quaresimale, mentre il nostro cuore si purifica e si prepara  alla celebrazione del mistero pasquale, la liturgia ci riconduce alla nostra realtà di creature, bisognose di riconciliarsi con la propria debolezza e con la propria fallibilità. In questo esodo dalla paura di quello che, in realtà, siamo verso la gioia di quello che possiamo essere, figli amati, Dio ci accompagna da sempre con le parole della Legge. I Dieci Comandamenti — che in realtà sono dieci “parole” — sono insegnamenti di vita che ci ricordano come sia impossibile entrare nella promessa della terra senza accettare la provvidenziale e complessa trama di dipendenze di cui si compone il tessuto della nostra vita. Segnandoci il cammino con queste parole, Dio non ha voluto solo trasmetterci un insegnamento, ma ricordarci fino a che punto la sua alleanza con noi è profonda. Dopo aver appoggiato l’arco sulle nubi e stretto alleanza con Noè, dopo averla ratificata in fondo alla notte angosciosa di Abramo, sul Sinai Dio ha posto ai piedi di Israele la lampada della sua parola. Affinché il viaggio attraverso il deserto della vita non fosse né una fuga, né un vagabondaggio, ma un cammino di libertà «perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà» (Es 20,12). L’amoroso ascolto di «tutte queste parole» (20,1) è capace di piegare le rigidità ancora presenti nel nostro cuore, liberandolo da illusioni e autonomie, per disporlo a conoscere tutta la «sapienza di Dio» (1Cor 1,24).

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