DENTRO LA VITA

Martedì della V settimana – Tempo di Quaresima
Talvolta, quando sembra che le cose stiano andando male, succede che poi le cose inizino ad andare pure peggio. La saggezza popolare sa bene come descrivere queste situazioni, con  frasi del tipo: “piove sul bagnato”, oppure che “al peggio non c’è mai fine”. Le Scritture affermano che talvolta sembra che sia addirittura il Signore a favorire certi odiosi peggioramenti, quando ci vede ostinatamente chiusi in noi stessi durante il faticoso, splendido viaggio della vita.

Allora il Signore mandò fra il popolo serpenti brucianti i quali mordevano la gente,
e un gran numero d’Israeliti morì (Nm 21,6)

In realtà, il libro dei Numeri, narrando l’antefatto che prepara l’episodio dei serpenti brucianti, rivela un dettaglio tutt’altro che irrilevante. Nel suo faticoso esodo lungo il deserto, il popolo di Israele decide di partire dal monte Or preferendo la via del Mar Rosso piuttosto che affrontare il territorio di Edom, dove il rischio di uno scontro con la popolazione locale era altissimo. Cerca, in altre parole, di aggirare un sicuro ostacolo. Ma, nel fare questo — dice letteralmente il testo — «lo spirito del popolo diminuì nel viaggio» (Nm 21,4) e tutti cadono nella (sempre) facile tentazione del lamento.

«Perché ci avete fatto salire dall’Egitto 
per farci morire in questo deserto?
Perché qui non c’è né pane né acqua 
e siamo nauseati di questo cibo così leggero» (21,5)

Questo piccolo inciso iniziale stempera quell’attribuzione a Dio che siamo soliti fare, quando le cose ci vanno sempre più male. Anche se non lo accusiamo esplicitamente le manie di persecuzioni serpeggiano così facilmente nell’anima e avvelenano la nostra preghiera. Nei guai, spesso, siamo noi a infilarci per l’abitudine ad aggirare i problemi, anziché scegliere la strada dello schietto confronto e del limpido affidamento. Il Signore Dio si rivela invece come colui che in ogni allontanamento, in qualsiasi complicazione del viaggio, non si stanca di offrire il suo soccorso al nostro spirito che diminuisce e perisce. Lo fa sempre allo stesso modo: ponendo la sua vita per noi e davanti a noi.

«Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, 
allora conoscerete che Io sono e che non faccio nulla da me stesso, 
ma parlo come il Padre mi ha insegnato» (8,28)

Il segno della croce, prefigurato in queste parole di Gesù, è la manifestazione di una salvezza che vuole compiere qualcosa di più grande del cambiare le circostanze della nostra esistenza. Ci vuole indicare un modo di vivere in cui si smette di vivere in autonomia e si impara a restare nella logica dell’affidamento, a Dio e ai fratelli. Dobbiamo avere solo l’umiltà di apprendere questa logica di povertà e umiltà, in cui il corpo diventa finalmente ciò per cui è stato creato: un tempio e un incendio di amore. Dobbiamo solo imparare a sollevare lo sguardo verso il cielo. Per restare — semplicemente — dentro la vita. 

Mosè allora fece un serpente di bronzo e lo mise sopra l’asta;
quando un serpente aveva morso qualcuno, 
se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita (Nm 21,9)

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