CIÒ CHE (NON) SIAMO

Lunedì – II settimana del Tempo di Quaresima
È sempre un riconoscimento amaro, mai semplice, quello del peccato che abbiamo commesso. Non tanto perché il termine appare oggi desueto e poco interessante. La ragione ultima della reticenza a confessare i nostri fallimenti — prima di tutto davanti a noi stessi — è purtroppo quello sgradevole alone che il peccato lascia sul volto, come dice coraggiosamente il profeta Daniele, ponendo il popolo a confronto con la fedeltà del Signore. 

Signore, la vergogna sul volto a noi, ai nostri re, ai nostri prìncipi, ai nostri padri, 
perché abbiamo peccato contro di te (Dn 9,7)

Il male che facciamo — per intenzione, distrazione o inganno — ci dipinge di vergogna il viso, fa invecchiare la pelle dell’anima. Il sottile imbarazzo che ne consegue, avvolgente come un’invisibile pellicola, non lo percepiamo subito, lo avvertiamo col tempo. È lo stratagemma, discreto e infallibile, con cui Dio ci conduce gradualmente al desiderio di conversione. Senza aver mai bisogno di umiliarci, il Signore risponde così al nostro bisogno di salvezza, non appena siamo disposti a riconoscere che i nostri sentieri si sono davvero interrotti. La cosa sorprendente è che non ci dà esattamente quanto gli chiediamo, ma ci invita a diventare quello che ancora non siamo. 

«Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso.
Non giudicate e non sarete giudicati;
non condannate e non sarete condannati; 
perdonate e sarete perdonati» (Lc 6,36-37)

I gesti di misericordia — apparentemente distanti dalle nostri attitudini e fuori misura rispetto al nostro cuore — sono la più sicura terapia per uscire dal corto circuito della vergogna. Il Maestro ci chiede di donare proprio ciò che noi non siamo e non abbiamo, perché così funziona le fede: ci educa a ricevere come dono gratuito quello che il nostro desiderio ancora affannosamente cerca e attende. Ci spinge a credere di poter essere il contrario di quello che siamo: traboccanti mentre ci sentiamo solo vuoti. In questo modo il Signore restituisce luce al nostro volto, rinunciando a indossare i panni del giudice e affidandoci, serenamente, la pratica del perdono, la declinazione più bella e impegnativa del verbo amare. Incremento di vita versato nei nostri cuori destinato a diventare fecondità per noi e per tutti.

«Una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo,
perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio» (6,38)

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