NECESSITÀ

V Domenica del Tempo Ordinario – Anno B
La liturgia di questa domenica manifesta le sue precise e profonde intenzioni già nella preghiera di colletta: “O Dio, che nel tuo amore di Padre ti accosti alla sofferenza di tutti gli uomini e li unisci alla Pasqua del tuo Figlio, rendici puri e forti nelle prove...”. Il Dio che si è rivelato Padre per sempre e per tutti nell’amore del suo Figlio è invocato come balsamo sull’umana sofferenza. Non solo come medico, che allevia o toglie il dolore, ma come salvatore che conduce la nostra vita dentro la verità del mistero pasquale. Scoprire in che cosa consista questo balsamo pasquale è il compito delle tre letture scelte per questo giorno. 

Urgenze
Le parole dell’antico sapiente Giobbe suonano così comprensibili e moderne che non ci sarebbe nemmeno bisogno di parafrasarle: «Come lo schiavo sospira l’ombra e come il mercenario aspetta il suo salario, così a me sono toccati mesi d’illusione e notti di affanno mi sono state assegnate» (Gb 7,2-3). Illusione, fatica, affanno, sospiri: sono le note che scandiscono i giorni di ogni persona che vive in questo mondo, come una fatale melodia a cui nessuno può sottrarsi. Tutti, ben presto, ci accorgiamo che quaggiù, dalle nostre parti, i giorni trascorrono spesso come «un duro servizio» (7,1), «un soffio» (7,7), che se ne va senza lasciare nel petto nemmeno «un filo di speranza» (7,6). Il nostro bisogno di pace, salute e serenità viene clamorosamente e ripetutamente smentito dalle circostanze, dagli imprevisti, dagli altri. Per non parlare di quell’ultima e definitiva smentita, che è il futuro di tutti: la morte. È questa umanità, stanca, afflitta, affranta, quella che Gesù incontra e accoglie nella sua umanità: «Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano afflitti da varie malattie e scacciò molti demòni» (Mc 1,32-34). Nel nome del Padre, il Figlio accoglie, cura, libera, nella potenza dello Spirito d’amore. 

Priorità 
Tuttavia, quando la cosa giusta da fare sarebbe rimanere e continuare — come i discepoli non mancano di sottolineare: «Tutti ti cercano!» (Mc 1,37) — il Signore Gesù matura nella preghiera notturna un’inattesa decisione: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là» (1,38). Sarebbe stato suo diritto godere un poco della popolarità acquisita, dopo aver fatto tanto bene a molte persone, dopo essersi consumato nell’ascolto e nella compassione. Sarebbe stata anche una buona idea rimanere, per continuare a fare del bene, per approfondire i rapporti, per portare avanti le cose iniziate. Invece, la fedeltà alla missione ricevuta dal Padre, “costringe” Gesù a dirigere altrove i passi, senza farsi condizionare dai bisogni e dalle aspettative della gente. Forse il cuore di Gesù si è accorto che il riconoscimento delle persone che ha guarito potrebbe facilmente trasformarsi nella tentazione di acquistare potere e dominio sulla loro vita. Oppure, più profondamente, Gesù cerca di rimanere fedele al mandato del Padre, che non è quello di togliere la sofferenza dalla storia, ma farla diventare occasione di conversione alla logica dell’amore, che è l’unica e vera salvezza dell’uomo. 

Incarico
Per comprendere il comportamento del Signore Gesù è illuminante il pensiero dell’apostolo Paolo. Volendo dirimere la discussione sorta dentro la comunità di Corinto, tra coloro che si ritenevano “forti” e quelli che erano considerati “deboli”, Paolo decide di catalogare il suo ministero non come una personale «iniziativa» (1Cor 9,17), ma un obbligo: «Annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo» (1Cor 9,16). Per sgonfiare l’inutile e dannosa polemica sorta tra discepoli — ancora così concentrati su se stessi — Paolo si svuota di qualsiasi «diritto alla ricompensa» potrebbe arrogarsi. Può risultarci strano pensare all’annuncio del vangelo come una costrizione — per noi agli antipodi della libertà — eppure Paolo ci aiuta a capire che il contrario dell’obbligo può essere non tanto la spontaneità, ma il vanto: «Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato» (9,17). Questa è la voce di chi ha smesso di leggere la sua esistenza dal versante dei diritti, e ha cominciato a guardarla da quello dei doveri. Questa, infatti, è stata la conversione del fariseo Paolo, resa possibile dall’incontro con la croce di Cristo, che ha manifestato come Dio per primo abbia rinunciato a vivere secondo il diritto di salvarsi, per obbedire al dovere di salvarci. Esiste una sofferenza, che sperimentiamo e facciamo sperimentare, tutta legata all’abitudine di vivere esercitando fino in fondo l’infinito elenco dei diritti acquisiti, che spegne in noi la gratuità di compiere atti di vero d’amore. Il Signore Gesù è venuto a liberarci da questa febbre, che ci tiene schiavi e ansiosi, per restituirci alla libertà e alla gioia del servizio. Così come fa con la suocera di Simone: «Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva» (Mc 1,31). Salvi lo siamo non quando non abbiamo bisogno del medico o del farmacista, ma quando sentiamo il “dovere” di mettere la nostra vita a servizio. Non per averne una ricompensa, ma per esercitare il diritto dei figli di Dio e godere — finalmente — dell’unico “vanto” vangelo: «Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnare il maggior numero [...] Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipa anch’io» (1Cor 9,19.23). 

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