FINE DELLE OSTILITÀ

I Domenica – Tempo di Quaresima (B)
La prima domenica di quaresima ci fa sollevare gli occhi in alto, fino al cielo. Questo spazio immenso che sovrasta e trasfigura il palcoscenico della terra è per Dio un luogo di comunicazione, un’impalpabile tavoletta su cui incidere segni e messaggi per l’umanità. Almeno così ci raccontano le Scritture sacre che ascoltiamo in questi giorni di Quaresima, tempo prezioso che vuole condurci a celebrare il mistero pasquale, fonte eterna di riconciliazione tra il cielo e la terra. 
L’arco
Dopo aver ricreato l’umanità nei tempi antichi attraverso il «diluvio» (Gen 9,11), Dio decide di mettere in chiaro una cosa, fugando ogni sospetto che poteva sollevarsi nel cuore dell’uomo. Offre un segno: «Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra» (9,13). Un fenomeno ottico — ben visibile in occasione di un temporale o in prossimità di una cascata — viene assunto da Dio come segno per annunciare che l’alleanza con noi «e ogni essere vivente» (9,12) non sarà più garantita con un atto di forza. L’arcobaleno, simbolo dell’arco con cui si può fare la guerra, adagiato sulle nubi e sopra la terra è una dichiarazione di mitezza e di non violenza senza possibilità di fraintendimento. Una dichiarazione di non intenti, sancita solennemente dal Signore: «Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere che vive in ogni carne, e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne» (9,14-15). Così si conclude il mitico racconto del diluvio: con i guantoni appesi al muro, le armi chiuse a chiave nell’arsenale, le frecce riposte nella faretra. Il cielo non userà più alcuna violenza contro la terra. Anzi, tutto il contrario. 

La croce 
San Pietro fa una una rilettura pasquale del racconto del diluvio, la narrazione antica che esprime attraverso il genere letterario del mito — “fantasy” diremmo noi oggi — l’origine e il senso di tutta la storia umana. Laddove noi siamo portati a considerare il diluvio come il momento in cui, almeno per un attimo, esplode la collera divina, l’apostolo riesce a scorgere invece un tempo di grazia, quando «Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua» (1Pt 3,20). Preparava vendetta Dio nei giorni precedenti il diluvio? No, pazientava per donare ancora salvezza alla terra, dice la lettera di Pietro. Nella riflessione dell’apostolo, l’arco riposto sulle nubi diventa un segno che anticipa il definitivo gesto di riconciliazione che si è realizzato e manifestato quando «Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito» (3,18-19). L’arca di legno diventa così il legno della croce, le acque del diluvio quelle del battesimo: «Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi; non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo» (3,21). Quel pugno residuo di sospetti che potevano ancora restare nel cuore dell’uomo nei confronti di Dio e della sua disponibilità al perdono non possono più sopravvivere ai piedi della croce: Dio ci ama fino a perdere la vita per noi. Il suo «amore» — come canta il salmista — «è da sempre» (salmo responsoriale). 

Il deserto
Serve però un tempo e un luogo per essere raggiunti da questo torrente di amore, che sgorga dal cuore di Dio e, mediante il battesimo, scorre come dono anche nel nostro cuore e nei terreni della nostra esistenza. Serve un deserto, un silenzio, un mare di tentazioni da conoscere e rifiutare per incontrare la verità del nostro essere figli amati dal Padre. Il Signore Gesù ne ha avuto bisogno, come Marco ci racconta in forma estremamente concisa: «E nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana» (Mc 1,13). Il Maestro si ritira in disparte per incontrare e conoscere la fragilità del cuore umano e permettere alla «magnanimità» del Padre di abitarvi pienamente e stabilmente.  Si espone alla tentazione e al combattimento per fare verità dentro di sé e dentro di noi. Fino a lasciare che una sola parola sopravviva in mezzo alle altre, quella che viene da Dio, che desidera essere vissuta e annunciata: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo» (1,15). Non può essere diverso il motivo per cui anche noi cristiani proviamo a vivere questo tempo con alcuni gesti di ascesi, preghiera e  mortificazione. Per scoprire cosa abita il fondo del nostro cuore. Per imparare a riconoscere e a rifiutare il male che siamo continuamente tentati di fare. Soprattutto per consentire alla nostra capacità di amore, spesso sepolta e inattiva, di esprimersi in caldi gesti di fraternità e coraggiosi atti di giustizia. Con mitezza. Con l’arco delle rivendicazioni e delle polemiche ben appoggiato sulle nubi della nostra ira. Insieme al Maestro, sospinti dallo «Spirito» (1,12). Ben consapevoli che l’unica capacità di amare e servire che possiamo esprimere è quella che è sopravvissuta ai passaggi nel deserto, dopo aver combattuto i mostri e le tentazioni presenti nel nostro cuore e averle sconfitte con la grazia di Dio. Se sapremo introdurci in questa sfida, accanto a noi rimarranno — innocue — tutte le «bestie selvatiche». Ci accorgeremo invece di essere circondati da molti «angeli» (1,13), pronti a servirci le parole di vita e i segni della salvezza. Fine delle ostilità. Inizio della quaresima.

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