RI-CONOSCERSI

II Domenica del Tempo Ordinario – Anno B
L’esperienza di Samuele, che si sente chiamare per nome dal Signore, e l’incontro di Simone con il Cristo, da cui scopre di poter essere chiamato con un altro nome — Pietro — rispetto a quello conosciuto sin dall’infanzia, prefigurano l’esperienza che l’ascolto delle Scritture promette di vivere. Non solo conoscersi attraverso il prisma di una parola di verità e di vita, ma persino riconoscersi in ciò che si è e in ciò che si è chiamati a essere dalla grazia di Dio.

Il nome
Accostando la prima lettura e il vangelo, possiamo subito rimanere sorpresi dal modo con cui questo riconoscimento può accadere. Il Dio che sempre ci cerca appare come colui che desidera anche essere cercato, per poter essere finalmente trovato e riconosciuto in ciò che egli è in verità: «il Messia» (Gv 1,41). Il vangelo, con questa insistente successione di nomi da ascoltare, scoprire e tradurre, sembra affermare che lo sviluppo della vita sia profondamente legato alla capacità di saper assegnare alle cose e alle persone il loro vero nome. Non solo quello con cui si comincia a essere chiamati o quello nel quale, talvolta, si rimane intrappolati (soprannomi). Il nome autentico è quello che rivela l’identità profonda di una persona, la sua libertà e la sua missione. Ne hanno fatto esperienza i discepoli di Giovanni, che diventano seguaci di Gesù proprio quando sentono parlare così bene di lui il loro maestro: «Ecco l’agnello di Dio» (1,36). Ma ne sa qualcosa soprattutto Pietro che, condotto al cospetto del Signore Gesù, viene raggiunto da uno sguardo talmente profondo da poter spalancare la sua vita a inedite prospettive: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa — che significa Pietro» (1,42).

Da ricevere
Mentre noi crediamo di conoscere bene quello che siamo, il Signore è sempre pronto a rivelarci nuove e sorprendenti possibilità di accogliere il dono della nostra vita, avendoci creati a immagine e somiglianza della sua fantasia d’amore. La sua voce si avvicina a noi con rispettosa insistenza, pronunciando il nostro nome in modo nient’affatto schematico. È per questo che, il più delle volte, fatichiamo a capirla, pur sentendone l’inconfondibile suono che suscita una pronta risposta: «Mi hai chiamato, eccomi» (1Sam 3,5.6.8). Guardandoci a partire dall’amore che ha per noi, il Signore ci conosce assai meglio e più in profondità di quanto noi pensiamo di conoscerci. Nelle parole che Gesù rivolge a Pietro non c’è solo una modificazione formale ed esteriore, simile a quei quotidiani cambi di password che talvolta siamo costretti a fare, perché l’abbiamo dimenticata oppure perché tentiamo di proteggere la nostra identità. Mediante l’indicazione di un nome nuovo, Pietro riceve l’annuncio di un’esistenza allargata, uno spazio di libertà dove tutto l’ingombro dei suoi limiti è pienamente accolto e chiamato a entrare decorosamente — e inevitabilmente — nel disegno di Dio. L’intero sentiero della sua vita è ribaltato in avanti, non più condizionato dalle sue premesse, ma aperto a sconosciute finalità. Come l’apostolo insegna ai cristiani Corinto, annunciando loro la grande dignità del corpo umano immerso nel mistero di Cristo, un corpo allo stesso tempo ricevuto gratuitamente e comprato a caro prezzo, donato e riconquistato: «Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi?» (1Cor 6,19).

Da dare
Le Scritture di questa domenica, però, non dichiarano soltanto che lo sguardo del Signore è capace di conoscere e cambiare il nostro nome. Dicono che anche noi siamo capaci di fissare «lo sguardo» su di lui, riconoscerlo e arrivare a chiamarlo con un nome nuovo: «Ecco l’agnello di Dio» (Gv 1,36), in un rapporto talmente bello e paritario da potersi permettere la curiosità dell’interrogativo: «Rabbi, dove dimori?» (1,38) e il coraggio dell’imperativo: «Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta» (1Sam 3,9). Anzi, sembra addirittura che a questo nostro riconoscimento sia riservata una priorità, almeno cronologica. Come se nel gioco di sguardi e di cuori, di libertà e di relazione, tra noi e Dio, esista un primo passo che solo noi possiamo compiere, affinché la nostra umanità possa responsabilmente fiorire e uscire dai recinti della solitudine: «Samuele crebbe e il Signore fu con lui» (3,19). Forse abbiamo dimenticato quanto è bella, antica, eterna la prima vocazione a cui Dio ha chiamato noi e tutti: vivere nella libertà, che non è solo lo spazio in cui possiamo scegliere, ma anche il diritto di poter dare finalmente un nome a quello che il nostro cuore cerca e desidera. Fino a voler restare, anziché ricominciare a cercare o a fuggire. Trasformando la vita in un’indimenticabile ora: «Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio» (Gv 1,39).

Commenti