COME SPOSI

III Domenica di Avvento – Anno B
Il tempo di Avvento è una splendida chiamata a tenere gli occhi aperti (I domenica), (re)suscitando un po’ di sana indignazione nei confronti delle ingiustizie e delle mezze misure che siamo abituati a tollerare (II domenica), soprattutto dentro la nostra vita. Ma, mentre i giorni scorrono velocemente verso il Natale, la liturgia si preoccupa di ricordarci che attendere il Signore significa anche ritrovare il coraggio di indossare l’abito nuziale, non come forma esteriore di un giorno speciale, ma come veste quotidiana che svela ciò che in realtà siamo chiamati a essere. Il Signore viene se e quando accettiamo la chiamata a poter restare nell’avventura della vita solo come sposi, in continuo esodo da ogni solitudine.

Non essere
Per entrare nel clima gioioso di questa bella notizia, siamo però chiamati a un preliminare confronto con la voce asciutta e dimessa di Giovanni, l’uomo «mandato da Dio» (Gv 1,6) per dare «testimonianza» (1,7) alla sua venuta. Il vangelo utilizza un linguaggio forense che vuole introdurci dentro un’immaginaria aula di tribunale, dove si sta svolgendo un processo. Sotto indagine è la «luce» — simbolo perfetto del Cristo nel quarto vangelo — mentre il testimone è appunto il Battista il quale, interrogato dalle autorità religiose circa la propria identità, si diffonde in una singolare confessione, scandita da una triplice negazione. Scartando tutte le proposte di identificazioni che la sua figura ammette, Giovanni sembra aver imparato a non lasciarsi sedurre da nessuna sproporzionata immagine di se stesso. Questa capacità di «non nutrire desideri di grandezza» (Rm 12,16), ma di saper discernere i lineamenti reali della propria persona e della propria chiamata, si perfeziona «al di là» (Gv 1,28) dei soliti luoghi dove tutti siamo soliti cedere alle lusinghe delle immagini ideali di noi stessi. Giovanni ha imparato a riconoscersi soltanto come «voce di uno che grida» (1,23) poiché ha accettato di compiere un cammino di essenzialità, allontanandosi da ogni forma di illusione e dissipazione. Si è liberamente sottoposto alla legge del deserto, esigente programma che l’apostolo Paolo non esita a consegnare alle prime comunità cristiane nel loro esodo verso il Padre: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male» (1Ts 5,21-22). Giovanni si è inoltrato più di chiunque altro nella temibile arsura del cuore umano, fino a scorgere con gli occhi della speranza l’incanto della pienezza dei tempi. Fino a credere che, davanti alla nostra povertà, l’unica scelta di Dio è quella di venirci incontro.

Essere
Anche noi, ogni giorno, veniamo raggiunti dall’implacabile domanda: «Tu, chi sei?» (1,19), che riattiva la quotidiana fatica di capire «interamente» (1Ts 5,23) noi stessi davanti allo sguardo degli altri. Tutti conosciamo l’istinto di voler mostrare sempre i riflessi più convenienti del nostro volto, anziché raccontare tutto il mistero della nostra persona: «spirito, anima e corpo» (5,23). È sempre più facile sorridere e dissimulare, piuttosto che riconoscere di appartenere al popolo dei «miseri», degli «schiavi», dei «prigionieri», di coloro che convivono con i «cuori spezzati» (Is 61,1). Eppure la liturgia di questa domenica attesta che la possibilità di gioire «pienamente nel Signore» (61,10) non dipende dalla quantità di luce che crediamo o mostriamo di avere, ma dall’intensità del desiderio che le tenebre — quelle che sono in noi e nel mondo — vengano presto rischiarate dalla fedeltà di Dio. 

Questo non è il problema
Il confronto con Giovanni è scomodo ma indispensabile sentiero per incontrare la logica dell’Incarnazione. Ci ricorda che per accedere alla gioia della Natale dobbiamo ritrovare uno sguardo più autentico su ciò che la vita è e su quanto ci permette ora di essere, ridimensionando aspettative e illusioni. Dio non viene a causa di quello che abbiamo fatto, ma di quello che siamo. La via che conduce a lui è diritta semplicemente quando non nasconde il nostro bisogno di relazione, ma attesta la voglia di (ri)fondare il cammino su logiche sponsali. Quando la nostra bellezza non coincide con un comportamento «irreprensibile» (1Ts 5,23) per mancanza di errori, ma con il fascino irresistibile di chi, sommessamente, proclama che da soli non si può e non si deve vivere, «come uno sposo», «come una sposa» (Is 61,10).  

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