AMORE EDIFICATO

IV Domenica di Avvento – Anno B
Dopo averci ricordato che si arriva a Natale solo indossando l’abito nuziale, la parola di Dio contenuta nelle Scritture di quest’ultima domenica di Avvento ci costringe a verificare se e quanto siamo disposti ad accettare la conseguenza inevitabile del non essere destinati a  solitudine. La piccola vergine di Nazaret, impaurita e curiosa, scopre che è Dio — non le nostre mani — a poter trasformare la vita in un albero pieno di frutti, in «un amore edificato per sempre» (salmo responsoriale). L’Avvento ci chiede di uscire da paura e isolamento affidandoci a un promessa: sarà Dio stesso a costruire la nostra casa. 

Passato
Una volta sconfitti i nemici e giunto al potere, il re Davide pensa che sia arrivato il momento di condividere con il Dio pellegrino «sotto i teli di una tenda» (2Sam 7,2) la sua buona sorte. L’idea di costruirgli una casa sembra buona e opportuna persino al profeta di corte: «Va’, fa’ quanto hai in cuor tuo perché il Signore è con te» (7,3). È però sufficiente il riposo di una notte perché emergano le ombre nascoste in un simile progetto. Il profeta ci ripensa e torna a fare meglio il suo mestiere, invitando Davide a riflettere sul suo passato: «Così dice il Signore: Forse tu mi costruirai una casa, perché io vi abiti? Io ti ho preso dal pascolo, mentre seguivi il gregge, perché tu fossi capo del mio popolo Israele. Sono stato con te dovunque sei andato, ho distrutto tutti i tuoi nemici davanti a te e renderò il tuo nome grande come quello dei grandi che sono sulla terra» (2Sam 7,8-9). È sempre dietro l’angolo la tentazione di addomesticare la presenza di Dio, confinandolo in luoghi e tempi ben precisi, recintando la sua splendida libertà. È il rischio che ogni atteggiamento religioso porta con sé: diventare oppio anziché fuoco, anestetico invece che terremoto. Il Signore, dopo aver fatto volgere indietro lo sguardo a Davide — perché ogni futuro non può che radicarsi nel passato — fa il ribaltone: «Il Signore ti annuncia che farà a te una casa» (2Sam 7,11). In questo cambio di soggetto sta tutta la leggerezza a cui il tempo di Avvento ci ha chiesto di convertire l’ansia del cuore. Non siamo noi che dobbiamo qualcosa a Dio — fossero anche le più nobili e sante intenzioni — ma è lui che desidera compiere qualcosa in noi. Per nessun motivo. Per amore.

Presente
Inizia con queste parole la celeste missiva che l’angelo porta a Maria: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te» (Lc 1,28). In questo modo continua, dentro la storia, ogni annuncio di vangelo: con l’imperativo di gioire, perché ce n’è motivo. Dio non è assente o lontano; è con noi. Per questo possiamo smettere di concepirci continuamente come soggetti chiamati a prestazione. Gli occhi di Dio ci offrono un’altra libertà: guardare alla nostra vita come una realtà amata, come oggetto di infinita grazia. Molto spesso siamo profondamente infelici per quello che siamo e abbiamo, solo perché usiamo specchi fasulli in cui cercare la nostra immagine. Spendiamo tempo ed energie per risultare carini e simpatici, gradevoli e competenti, sofisticati e semplici. E mentre tentiamo di essere splendidi a tutti i costi (e a che prezzo!) ignoriamo che, in realtà, Dio ci vede già tali. Ma non per quello che siamo riusciti a fare o mostrare di noi stessi. Per quello che siamo. Un simile sguardo, così gratuito, toglie il fiato, fa paura. Nemmeno alla futura madre del Signore è risparmiata questa esperienza di timore: «A queste parole ella fu molto turbata» (1,29). Maria però non si lascia dominare dai sentimenti; riflette: «e si domandava che senso avesse un tale saluto» (1,29). Si interroga, tira fuori i pensieri e i sentimenti più nobili, concede spazio all’avanzare di Dio. Allora l’angelo affonda il colpo: «Non temere». E le illustra il progetto di Dio. Maria ascolta, capisce, si affida alla parola e disobbedisce alla paura. 

Futuro
In questo modo finisce l’attesa e il Signore viene. Con un atto di disobbedienza ai nostri timori, che sempre si concretizzano nei propositi e nei progetti di fuga dalla realtà. Maria rinuncia a scappare e dice l’unica parola che a Dio basta: «Ecco». Si lascia trovare. Non si sottrae. Non si nasconde. Non rinuncia a lasciarsi definire da un sogno immenso e impossibile ai suoi occhi di giovane donna, sicura che «nulla è impossibile a Dio». Si dà anche un nome, che è tutto un programma: «la serva del Signore» (1,38). Accogliere lo sguardo di Dio fino a sentirsi sposi non più destinati a solitudine, a un certo punto, significa accettare che la nostra vita gli possa servire in qualche modo. Questo atto di autentica umiltà è meno scontato di quanto si possa immaginare. Soprattutto oggi, in una società che genera immaginarie libertà accompagnate da terribili insicurezze. Eppure il vangelo si rinnova sempre e solo quando la nostra umanità non ha paura di dichiararsi utile al cielo. Proclamarsi servi del Signore vuol dire offrire un’incondizionata disponibilità a essere terra feconda. Significa (ri)cominciare a vivere come madri e padri, cioè come persone che non camminano più rattristate, in attesa di un futuro più favorevole per iniziare a donarsi e a spendersi. Ma come uomini e donne che accolgono il presente come l’inizio di un nuovo futuro in cui Dio saprà e vorrà costruire a noi e alla nostra discendenza una dimora di pace, «secondo la rivelazione del mistero, avvolto nel silenzio per secoli eterni, ma ora manifestato» (Rm 16,25-26). In fondo, come restare confinati nella paura, se Dio ha deciso di donarsi, per sempre e per davvero, alle nostre mani, non avendo alcun dubbio sul fatto che sapremo e vorremo prenderci cura della sua presenza?

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