UNA PORTA APERTA

Mercoledì – XXXIII settimana del Tempo Ordinario
L’esordio della prima lettura accende subito un senso di attesa e di stupore, di fronte alla rivelazione che in cielo si prepara per chi è ritenuto degno di accedervi. L’immagine di una porta che si apre e di una voce suonante che invita a entrare — anzi “salire” — intercetta il desiderio che portiamo nell’anima di conoscere il mistero di Dio e ascendere verso le sue meravigliose altezze di bellezza, verità e bontà.

Io, Giovanni, vidi: 
ecco, una porta era aperta nel cielo (Ap 4,1)

Ma la vera sorpresa non consiste nella quantità e nella straordinarietà delle cose che il veggente di Patmos è condotto a contemplare. Piuttosto nella sobrietà — quasi liturgica e rituale — di quanto avviene nel santuario del cielo. Attorno al trono, dove sta seduto Uno dall’aspetto splendido e luminoso e dotato di una vita eterna, tutti coloro che sono presenti «non cessano di ripetere» parole di adorazione e di lode.

«Santo, santo, santo il Signore Dio , l’Onnipotente, 
Colui che è che era, che è e che viene! [...] 
Tu sei degno, o Signore e Dio nostro, di ricevere la gloria, l’onore e la potenza,
perché tu hai creato tutte le cose, per la tua volontà esistevano e furono create» (Ap 4,811)

Oltre la porta, nello spazio celeste, l’Apocalisse ci rivela un luogo dove un Re è liberamente — e gustosamente — adorato dai suoi servi. Felici e contenti di potersi riconoscere viventi debitori e grati di un simile Dio regnante su quel trono che, noi cristiani, sappiamo essere la croce. Dunque la logica povera e umile del vangelo. Fuori metafora, la prima lettura ci annuncia quali sono le «cose che devono accadere in seguito»: Dio è riconosciuto e accolto nella vita di quanti non temono il compimento del suo disegno di amore. Assai diverso è, invece, l’atteggiamento di quei cittadini che sembrano infelici di fronte all’ipotesi che un uomo nobile acquisti il titolo di re.

«Ma i suoi cittadini lo odiavano e mandarono dietro di lui una delegazione 
a dire: “Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi”» (Lc 19,14)

La versione lucana della parabola appena ascoltata nella liturgia domenicale si arricchisce di questo particolare. Il mistero della paura che paralizza e porta a nascondere le monete ricevute, anziché farle fruttare, è ulteriormente descritto dall’atteggiamento di questi cittadini. Gli studiosi ci dicono che il retroterra di questa “parabola nella parabola” potrebbe essere la storia di Erode Archelao (figlio di Erode il Grande), famoso per aver trucidato alcuni suoi oppositori dopo essere tornato da Roma, dove aveva ricevuto l’investitura di re della Giudea. Forse questo è un altro amaro e odioso particolare che spiega l’assurdità dei nostri atteggiamenti di pigrizia: non essere persuasi che Dio sia il vero Re capace di assicurare vita e felicità a tutti. E, quindi, volerne e attenderne uno più efficace ed efficiente. Capace di cambiare le cose in tempi rapidi. Tutto diverso, insomma, da quel Dio che volendo cambiare tutte le cose ha, invece, scelto di non farlo senza di noi. E di farlo senza fretta.

In quel tempo, Gesù disse una parabola, perché era vicino a Gerusalemme
ed essi pensavano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro (19,11)

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