SIAMO TEMPIO

Dedicazione della Basilica Lateranense
«Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?» (1Cor 3,16). È la voce vigorosa dell’apostolo Paolo a scuotere il nostro spirito in questa domenica, ridestando la coscienza di quello che agli occhi di Dio siamo e restiamo. Oggi festeggiamo la dedicazione della Basilica Lateranense, il primo grande luogo di culto che accolse la preghiera dei cristiani quando nel IV sec. — finito il tempo delle persecuzioni — uscirono dalle catacombe per celebrare la grazia del vangelo alla luce del sole e davanti agli occhi di tutti. In questa domenica,   volgendo lo sguardo alla cattedrale di Roma, siamo tutti richiamati a considerare quale grande dignità sia essere il corpo di Cristo, nel mondo e nella storia. 

Una sorgente
Il tempio in cui Dio abita e incontra l’uomo è da sempre immaginato come un luogo speciale e misterioso. Il profeta Ezechiele lo contempla come un edificio da cui scaturisce una rigogliosa cascata d’acqua che riversa il suo corso verso oriente, nella direzione da cui proviene la luce, cioè la vita. Procedendo in questa marcia il torrente si impregna di vitalità e di forza e «là dove giungerà il torrente tutto rivivrà» (Ez 47,9). Questa capacità di dare vita rispetta e valorizza tutte le diversità, dal momento che «lungo il fiume, su una riva e sull’altra, crescerà ogni sorta di alberi da frutto, le cui fronde non appassiranno: i loro frutti non cesseranno e ogni mese matureranno, perché le loro acque sgorgano dal santuario» (47,12). È un primo, splendido significato del tempio: un luogo capace di diffondere vita a chi entra in contatto con esso. Non si tratta né di magia, né di illusione, ma della fiducia profonda che, quando il popolo si lascia convocare dalla Parola del Signore e diventa assemblea pubblica, allora «Dio è in mezzo ad essa» (Salmo Responsoriale). La chiesa dunque — ogni chiesa — appare come una realtà il cui valore non sta tanto nelle sue logiche interne, ma nella sua capacità di riversarsi all’esterno e dare la vita al mondo. Quella vera, eterna, di Dio.

Un edificio
Ma questo «edificio di Dio» (1Cor 3,9) nel quale volentieri ci raduniamo, in fondo siamo noi. Anzi, scrive Paolo ai cristiani di Corinto, lo stiamo diventando, collocando mattoni e mura sopra il «fondamento» (3,10) del nostro battesimo. Sebbene Dio sia felice di dimorare dentro di noi, soccorrendo la nostra debolezza con il suo amore ogni giorno, «allo spuntare dell’alba» (Salmo Responsoriale), attende che noi diventiamo sapienti architetti che collaborano con lui all’edificazione della nostra umanità secondo la parola del vangelo. «Ma – puntualizza l’apostolo — ciascuno stia attento a come costruisce» (3,10), perché esiste la possibilità di «porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo» (3,11). Detto in parole più semplici, corriamo il rischio di alterare il progetto di gioia e di vita che il nostro battesimo ha inaugurato, cominciando a costruire il senso della nostra vita su valori diversi da quelli che il Signore ci ha indicato come irrinunciabili. Possiamo allestire cantieri dove non esistono — né possono esistere — fondamenta su cui innalzare progetti di vita. L’idolatria, che ci spinge a venerare e sacrificare la vita per cose che la vita non ce la possono dare, è da sempre il primo peccato che ci tenta dietro l’angolo. Il modo più rapido, facile e seducente di imboccare scorciatoie, anziché assumere quotidianamente il compito di offrire quello che siamo come luogo di incontro con Dio e con i fratelli.

(Non) Un mercato
Gesù un giorno si accorge che questo peccato veniva consumato dal popolo con estrema facilità, proprio nel recinto sacro del tempio. Anzi era diventato ormai un atteggiamento collettivo, di cui nessuno più si accorgeva. Si celebrava un giorno la «Pasqua dei Giudei» (Gv 2,13), cioè la festa che ricordava il passaggio dalla schiavitù alla libertà, dalla solitudine alla compagnia di Dio, dalla vita come lavoro forzato alla vita come dono ricevuto. Ma Gesù non trova nel tempio l’acqua viva della gratitudine, bensì la palude di un rapporto freddo ed economico tra il popolo e il Dio della vita: «Gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti al banco» (2,14). E si arrabbia. Tanto. E grida: «Portate via questa cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato» (2,16). Il nostro corpo è l’edificio, il tempio, la sorgente della vita di Dio a condizione che rimanga un mistero da accogliere e da donare, non un prodotto da immettere nel mercato. Siamo un corpo, un mistero di ossa, muscoli, cuore, intelligenza, un impasto divino di terra e aria, di carne e di spirito. Dobbiamo imparare ad accoglierci, senza trucchi, senza scorciatoie, senza stancarci. Le cose più importanti che abbiamo e che siamo non le abbiamo scelte. Possiamo imparare ad amarle, fiduciosi che qualcuno le conosce e le guarda con infinita ammirazione: «Santo è il tempio di Dio che siete voi» (1Cor 3,17). Nella misura in cui onoriamo e amiamo il nostro tempio, potremo diventare un torrente che visita e rallegra i corpi dei nostri fratelli, e annuncia a loro quel «fondamento» invisibile che non si stanca di dare la vita a tutte le cose. 

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