SENTIRE

XXXIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A
La lunga parabola con cui l’evangelista Matteo si congeda da noi, alla fine di quest’anno liturgico, è un potente antidoto contro il peggior incubo che possa serpeggiare dentro la comunità cristiana e nel cuore di ogni discepolo: il sospetto che Dio sia un tipo duro, troppo duro. Le scritture scelte per questa domenica ci aiutano a riconoscere dietro questa apparente durezza la forza rocciosa dell’amore. E la responsabilità di poter crescere di fronte a questo fiducioso volto. Fino a diventare uomini e donne forti. Figli del giorno.  
Durezza
C’è una durezza spaventosa nel finale della celebre parabola dei talenti. Dopo aver riscontrato l’ottima gestione dei primi due servi, a cui aveva affidato cinque e due talenti, i quali hanno raddoppiato il capitale come bravi manager, il «padrone» (Mt 25,19) va su tutte le furie quando l’ultimo servo — che di talento ne aveva ricevuto uno solo — confessa di non aver osato l’investimento e, pieno di paura, restituisce il denaro ricevuto: «Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti» (25,26-30). Perché questa reazione così esagerata di fronte all’errore di un servo che, in fondo, non ha nemmeno dilapidato il patrimonio? Quale Dio ci rivela una simile reazione intransigente e perentoria? Come valutare il fatto che Gesù ha pronunciato questa parabola appena prima di iniziare la sua passione, morte e risurrezione per amore di tutti gli uomini? Per scoprire il motivo che sta all’origine di queste parole, è necessario fare attenzione a quanto dice il servo, nel momento in cui si presenta davanti al padrone: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra (25,24-25). Nella voce tremante del servo possiamo riconoscere quella di Adamo, che dopo aver peccato si nasconde da un Dio avvertito come avversario minaccioso. È il veleno del serpente, che sta dentro il cuore di ciascuno di noi e ci induce a pensare che il Signore ci chieda tanto, troppo. Che sia un tipo duro.

Fiducia
In effetti, la conclusione della parabola non è né buona, né nuova notizia. È quello che, purtroppo, sta radicato in fondo ai nostri pensieri. Il sospetto che Dio sia, in fondo, una persona rapace, giudicante, esigente. Che anche dietro le cose più belle e sante che ci chiede di fare, in fondo, ci sia sempre qualche trappola o un prezzo da pagare. È il motivo per cui viviamo fedeltà occasionali alla sua volontà, non ci gettiamo mai fino in fondo nelle scelte, ricadiamo spesso nei soliti peccati. Il vangelo nascosto in questa parabola invece è tutto all’inizio, talmente bello da passare quasi in secondo piano: «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì». (25,14-15). Dio non è duro, ha immensa fiducia in noi. Al punto da prendere i sui beni e affidarceli. E lo fa rispettando le nostra capacità, senza umiliarci, senza illuderci, dandoci dignità nel collaborare con lui alla costruzione della storia e del Regno. Senza metterci il suo fiato sul collo, come un genitore ansioso. Si allontana, ci lascia spazio e tempo per imparare, per sbagliare, per cercare e trovare. No, no è proprio un tipo duro. È un tipo bello: che non possiede ma condivide, che non fa tutto da solo perché ha fiducia nel prossimo, che non ha proprio alcun timore nel farsi rappresentare da noi in sua assenza. Per lui siamo come quella donna forte di cui parla il libro dei Proverbi: «In lei confida il cuore del marito e non verrà a mancargli il profitto. Gli dà felicità e non dispiacere per tutti i giorni della sua vita» (Pr 31,11). Questo è il Dio che Gesù ci ha rivelato: il Padre.

Sentire
Questo volto splendido di Dio, che rende operosi e sereni i suoi figli, è quanto l’apostolo Paolo cerca di ricordare a una comunità tentata di orientarsi secondo false sicurezze economiche e politiche del mondo greco-romano di duemila anni fa: «Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro» (1Ts 5,4). Allora come oggi, la tentazione è sempre quella di illudersi che esista qualcosa di meglio della realtà per essere servi fedeli del Signore e camminare verso la vita eterna. La sfida più difficile per i cristiani di ogni tempo è quella del poco, dell’ordinario, del quotidiano, in cui il cuore è chiamato a diventare «fedele» per imparare così ad avere «potere su molto» (25,21.23). Il timore dell’ultimo servo si era costruito proprio attorno alla scusa della sua più piccola misura. Sembrandogli poco — rispetto agli altri — il denaro ricevuto, si era sentito anche autorizzato a fare la vittima e a condurre una vita mediocre, rassegnata a sterilità. Nelle parole con cui tenta di congedarsi dal suo padrone, tradisce il grave e odioso pensiero che tutti coviamo nel cuore: «Ecco, ciò che è tuo» (25,25). Quando non sentiamo come già “nostro” quello che siamo e quello che la vita ci sta offrendo, cadiamo inevitabilmente nella paura e decadiamo da un rapporto filiale con Dio. Dio non soffre quando commettiamo qualche peccato, ma quando fraintendiamo quale meraviglioso rapporto di rispetto e fiducia egli voglia vivere con noi. Nell’ipotesi in cui sarebbe stato meglio affidare il talento ai banchieri, per ritirarlo almeno con l’interesse, possiamo leggere tutto il rammarico che Dio sente, quando noi rimaniamo vittime, immobili e tristi, delle tenebre che sempre trovano il modo di parlare al nostro cuore. Per questo proprio lì — nelle tenebre — ci getta per un tempo di purificazione e di guarigione. Nell’attesa che spunti presto — di nuovo — la stella del mattino. E la speranza di poter risorgere ci faccia entrare ancora una volta nel mistero della sua Pasqua. Fino a poter sentire di nuovo e sempre le parole della speranza che non delude: «Bene, servo buono e fedele, [...] prendi parte alla gioia del tuo padrone» (25,21.23). 

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