RE(G)ALE

Solennità di Cristo Re – Anno A
La solennità di Cristo Re dell’universo, che conclude l’anno liturgico, può risultare per noi una festa abbastanza strana, quasi démodé. Parlare di re e di regni stride con la nostra sensibilità moderna, stanca — per non dire esausta — di essere male rappresentata e governata da poche persone potenti. Ma, per noi cristiani, questa ricorrenza non è l’occasione di accendere il ricordo di tempi passati, spolverando nostalgie monarchiche. In questa domenica noi proviamo a metterci davanti a un Dio che ha scelto di regnare non come un potente, ma come un «agnello immolato». Davanti a lui tutta la storia — e ogni storia — è e verrà giudicata, secondo il criterio dell’amore. 

Io stesso 
Stanco di vederci dispersi, smarriti e feriti. Desolato nel vedere che chi dovrebbe assolvere il compito di pastore preferisce occuparsi dei propri interessi piuttosto che del prossimo, il Signore ha fatto per mezzo del profeta Ezechiele la più bella delle promesse: «Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna [...] Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio» (Ez 34,11.15). La ripetizione con enfasi di quel pronome personale è di grande consolazione per tutti noi, che spesso ci sentiamo abbandonati e perduti, come il popolo di Israele a cui il profeta rivolgeva le sue parole. Anche se Dio nessuno lo ha mai visto, e sappiamo bene come la sua presenza nella realtà sia sempre mediata e mai direttamente percepibile, è davvero di grande consolazione ascoltare il desiderio e l’impegno ad assumere la responsabilità di cercare la nostra vita e di condurla a pienezza di felicità. Questo, in fondo, al nostro cuore basta: sapere che siamo desiderati e amati. Dentro e oltre le nostre contraddizioni. La cura del Signore annunciata dal profeta non è infatti un privilegio riservato ad alcune categorie di persone, ma un movimento d’amore che si estende in ogni direzione: «Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte» (34,16).

Ognuno
La riflessione di Paolo, dopo la pasqua del Signore Gesù, non può che fornire una misura — immensa — alla parola profetica: «Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita» (1Cor 15,22). In un contesto dove, già, sorgeva la tentazione di non credere alla cosa più importante e decisiva della fede cristiana — il mistero della risurrezione — Paolo decide di non rinunciare a ribadire il punto capitale dell’annuncio evangelico. La premura pastorale di Dio si è manifestata definitivamente quando siamo stati ricondotti alla radicalità della ferita da guarire (il peccato) e alla destinazione ultime e definitiva del viaggio, che in questo mondo inizia (la risurrezione a vita eterna). Fino a questo punto, infatti, eravamo — e siamo smarriti: fino aa non renderci conto che la vita è guastata non da quello che da fuori la può minacciare (malattie, cataclismi, terrorismi), ma da quello che esce dal nostro cuore: il desiderio e l’intenzione del male. Cioè, il peccato. Feriti nel profondo da questa tenebra, avevamo — e abbiamo — dimenticato la meta dei nostri passi: il cielo, la vita che non finisce e che riceveremo per sempre. Questo il Signore Gesù è venuto a ricordarci, aprendoci le porte di un regno a cui tutti siamo stati invitati a partecipare, che è il destino della storia e di tutte le storie: «Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza» (15,23-24).

Noi stessi 
Come si diventa regali? Come si risorge? La grande parabola di Matteo, che ha ispirato artisti di ogni tempo, può essere intesa non tanto come il “giudizio finale”, ma come la “fine di ogni giudizio”. Sì, perché sotto lo sguardo di un re mite e umile di cuore, si rivela — e si rivelerà — quello che noi veramente siamo, al di là di ogni illusione e (pre)giudizio. Con questo testo magnifico, l’evangelista Matteo vuole annunciare che la misericordia — quella vera — non può essere una misericordia intenzionale, ma inconsapevole. Dentro la cornice di un universale e personale giudizio di tutti i popoli, ciò che colpisce non è il fatto che qualcuno andrà a destra e qualcuno a sinistra, ma che tutti esclameranno: «Signore, quando...?» (Mt 25,37.44). Se questo può essere comprensibile in riferimento a coloro che non hanno vissuto l’amore nei piccoli gesti, risulta piuttosto strano in riferimento ai giusti. Il vangelo di questa solennità ci vuole dire che finché facciamo atti di bontà caricandoli di intenzioni rischiamo di “usare” ancora l’altro e il bene che possiamo fargli lo facciamo, in realtà, per noi stessi. Il bene che sembra toccare ed esprimere il cuore stesso di Dio è quello che facciamo con estrema naturalezza, come espressione della nostra natura simile a quella di Dio. Senza poterci contemplare. Inconsapevolmente. Non saremo giudicati dunque su quanto saremo diventati bravi, ma quanto saremo diventati noi stessi. Questa è la regalità di Dio e anche la nostra: la capacità di restituire l’amore ricevuto senza calcoli e senza nemmeno farci troppo caso. Facendo attenzione al “piccolo” e al “basso”. Perché è proprio in queste coordinate di debolezza che noi, spesso, non sappiamo riconoscere la presenza di Dio. Mentre la piccolezza è il trono da cui egli guarda e giudica la storia. Celebrare la regalità di Cristo significa fare il punto e chiederci quanto “sangue blu” sta scorrendo nelle nostre vene. Con la sua morte e risurrezione, il Signore ci ha definitivamente riscattato per essere suoi amici, non servi. Ci ha reso “regali” perché ci ha reso capaci di regalarci. Non in circostanze speciali o occasionali. Ma sempre, nella realtà.  Regali, dunque, perché reali. 

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