PRIMO AMORE

Lunedì – XXXIII settimana del Tempo Ordinario
Anche se ci piace pensarlo con molto romanticismo, ricordarlo come un momento magico e irripetibile, il primo amore non è autentico. Anzi, è pesantemente segnato da bisogni e dagli egoismi che il tempo sapientemente purifica, per lasciare spazio a una relazione meno emotiva e, dunque, più libera. Il libro dell’Apocalisse, che da oggi ci prende per mano per condurci fino alle porte dell’Avvento, no ha paura di usarlo come immagine forte e coinvolgente per chiamarci a conversione.

«Sei perseverante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti.
Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il tuo primo amore.
Ricorda dunque da dove sei caduto, convèrtiti e compi le opere di prima» (Ap 2,3-5)

Pur essendo una forma di amore ancora immaturo, il primo amore possiede una grazia particolare, che il tempo, le circostanze — e le nostre scelte — tendono a offuscare. Si tratta di un certo modo di vedere la persona amata oltre ciò che essa realmente è. Non se ne vedono bene i difetti, si apprezzano eccessivamente i suoi pregi, la si guarda pensando al bene e alla felicità che noi siamo disposti a donargli, sinceramente e gratuitamente. Perché si ha l’incanto negli occhi, il sogno nel cuore. Nella vita, questo privilegio che l’amore concede nella sua primavera è una grazia da cercare e trovare continuamente. A qualsiasi prezzo, come fa il mendicante cieco nel vangelo. 

Sentendo passare la gente, domandò che cosa accadesse. 
Gli annunciarono: «Passa Gesù, il nazareno!».
Allora gridò dicendo: «Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!» (Lc 18,36-38)

Avendo perso lo sguardo su tutte le cose, il cieco non ha alcun timore a raccogliere l’invito dell’Apocalisse. Perciò grida, si alza, converte il passo della sua vita al Signore che passa accanto alla sua povertà. Così si riceve e si compie la grazia del vangelo. Non certo stipando nel cuore sentimenti che non proviamo più o indossando ipocrite maschere di affettata religiosità. Accettando invece il non-giudizio di Dio che conosce la nostra fatica e la nostra volontà e desidera riconsegnarci sempre l’avventura dell’amore. È la cosa più dura da ammettere: che non siamo cattivi, ma perdiamo continuamente l’incanto degli occhi, l’umiltà di gridare tutta la nostra fatica e la nostra debolezza. La libertà di manifestarci figli per tornare alle «opere di prima», e soprattutto a quelle meravigliose e nuove (Ap 2,5), «quelle che dovranno accadere tra breve» (1,1).

E Gesù gli disse: «Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato» (Lc 18,42)

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