COLLIRIO

Martedì – XXXIII settimana del Tempo Ordinario
Faccio fatica a metterlo (e pure ad ammetterlo). La mia (in)capacità di tenere l’occhio aperto e lasciar cadere la goccia di medicamento non conosce miglioramenti nel tempo, nonostante i reiterati tentativi. Eppure, se la Scrittura oggi ne parla, conviene farlo anche a me. Il veggente di Patmos  — autore del libro dell’Apocalisse — prescrive il fastidioso unguento per gli occhi alla chiesa di Laodicèa, come estremo rimedio alla sua tronfia presunzione di essere altro rispetto alla realtà.

«Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla.
Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. 
Ti consiglio di comprare da me [...] collirio per ungerti gli occhi e recuperare la vista» (Ap 3,17-18)

Dopo averci parlato della cecità fisica (vangelo di ieri), la parola di Dio ci impone il confronto scomodo con una forma assai più subdola e pericolosa di incapacità visiva: quella che spesso abbiamo su noi stessi e sui nostri irregolari contorni. Iscritti automaticamente al gioco folle della modernità — dove vince chi è più splendido — ci siamo abituati a fissare lo sguardo non tanto su quello che siamo, ma su quello che vorremmo (noi o gli altri) essere. Così cadiamo in una forma di miopia che se non è dolosa, sicuramente è almeno dolorosa, perché ci fa smarrire il contatto con la (nostra) realtà, l’unico vero punto da cui può ripartire il cammino di ogni giorno. Un uomo, nel vangelo, sembra prendere coscienza che non si può vivere sempre a occhi chiusi. E quando sente passare la luce accanto a sé si mette a cercarla. 

Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là.
Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse:
«Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua» (Lc 19,4-5)

Zacchèo riesce a tradurre in pratica il rimprovero e l’esortazione dell’Apocalisse trasformando la sua debolezza in forza. Probabilmente stufo e nauseato da una vita tutta incentrata sul culto del potere, accetta di mettere a nudo il suo bisogno di relazione autentica e si strofina gli occhi al passaggio di Dio lungo la sua vita, che ama cercare e trovare chi è e si sente perduto. E diventa lui stesso, come una goccia di collirio che cade, scivolando dai rami dell’albero direttamente nel cuore di Dio, rivelandoci la sua meravigliosa identità.

«Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo.
Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (19,9-10)

Chi non si vergogna di ungersi gli occhi con il collirio — sempre disponibile — delle lacrime smette di essere tiepido. Perché non dà retta a quanto — in lui o attorno a — «sta per morire» (Ap 3,2). Ma si ricorda di aver «ricevuto e ascoltato la Parola» (3,3) che ha rivelato il volto di un Dio che non può e non vuole venire a noi come un ladro. Ma come uno sposo. Disposto a tutto, pur di varcare la soglia della nostra libertà. Per non tornare indietro mai. 

«Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta,
io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20)

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