SCARTARE

XXVII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A
Dopo i vangeli in difesa di ritardatari e svogliati, ecco un ultimo, decisivo parametro di giudizio a proposito del nostro essere vignaioli invitati alla responsabilità e alla fecondità della terra di Dio. In questa domenica siamo sollecitati a verificare la drammatica possibilità del rifiuto di fronte al compito di portare frutto senza diventarne mai proprietari. Un dramma nel quale il Signore non resta in disparte, ma entra con la forza e la fedeltà del suo amore. 

Scartata
«Acini acerbi» (Is 5,2): quante volte la vita ci ha restituito questo inequivocabile giudizio. Immaturi. Non pronti. Irresponsabili. Non ancora sufficientemente entrati nelle cose. Qualche volta, magari, questa valutazione ci è stata recapitata a viso aperto. Altre volte lo abbiamo capito da soli. In altre ancora ce ne siamo accorti lentamente, davanti allo specchio della realtà e al comportamento degli altri. Infatti, quando siamo ancora acerbi, ci serve anzitutto una cosa, per quanto dolorosa sia: rendercene conto. Serve che vediamo e sperimentiamo la sterilità in cui versa la nostra terra. Questo è il senso dalla parabola di Isaia, un giudizio netto che però vuole essere un «cantico d’amore» (5,1). Chi ama — si sa — non ha timore di pronunciare parole scomode. Perché non è preoccupato di se stesso, ma del bene dell’altro. Dio decide di fare così con Israele, quando si accorge che tutta la sua premurosa cura non sta facendo maturare i frutti attesi. Dice il profeta a Israele: «Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate; in mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino. Egli aspettò che producesse uva; essa produsse, invece, acini acerbi» (5,2). Perché c’è una cosa che Dio proprio non sopporta, quando volge lo sguardo a noi, sue creature amate. Non sopporta di vedere la nostra vita come un bicchiere mezzo vuoto, la nostra umanità povera di grazie e di virtù. E allora permette che ce ne accorgiamo fino in fondo. Che gustiamo il calice amaro della solitudine in cui ci siamo cacciati. Ci scarta: «Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata» (5,5).

Scartati
La parabola del Signore Gesù approfondisce l’immagine di Isaia, affermando che non è la vigna a essere scartata, ma siamo noi, i suoi vignaioli. Il problema questa volta non è tanto — e non è solo — il portare frutto, ma la disponibilità a consegnarlo al suo legittimo proprietario: «Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono» (Mt 21,34). Conoscendo la Bibbia e la storia umana non dovrebbe sorprenderci l’aggressività con cui i servi del padrone vengono trattati. Da Caino ed Abele fino ai giorni nostri, la vicenda umana è impastata di odio, sangue e sopraffazione. Ciò che davvero sconcerta nel racconto di Gesù è l’ostinazione con cui il padrone della vigna non smette di allungare la mano verso la sua vigna, attingendo agli strumenti più caria sua disposizione: «Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”» (21,37). A cui però non corrisponde affatto un cambiamento di atteggiamento, ma un sussulto di violenza: «Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”» (21,38). I contadini sembrano lontani anni luce dalla prudenza raccomandata dall’apostolo, così estranea anche ai nostri scatti di rabbia e di aggressività a cui ci lasciamo spesso andare: «Fratelli, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri» (Fil 4,8). Ma la versa sorpresa della parabola sta tutta nel finale, dove il padrone non appare tanto interessato a vendicarsi dei torti subiti, quanto a fare il possibile per vedere presto frutti nella sua vigna. Per questo non esita a scartare e a scegliere di nuovo: «Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti» (Mt 21,43). 
Scartato
Per annunciare questo inatteso cambio di scena, Gesù fa riferimento alle Scritture che annunciano il grande mistero della Pasqua: «La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi» (21,42). Il male infatti non si risolve finché qualcuno non lo assume senza restituirlo. La spirale di odio raccontata dalla parabola trova un epilogo nella carne del Figlio di Dio, «in Cristo Gesù» (Fil 4,7). È lui la pietra che noi abbiamo scartato dalla storia, ma che Dio ha posto come fondamento di una nuova storia di salvezza e di una nuova umanità. Il vero scartato è lui, il Figlio. Che esce dalla vigna, ma non senza il nostro peccato sul suo corpo. Questa è la bella notizia, la Pasqua che ci salva. Guardando a lui possiamo ritrovare fiducia anche nei confronti di tutta quella terra scartata dal nostro o dall’altrui egoismo. E anche in noi, così spesso tristi, accartocciati, chiusi e poco creativi perché (ci sentiamo) scartati. Noi che, al contrario, siamo scelti, amati, perché qualcuno — il Signore Gesù — è stato scartato affinché noi non lo fossimo più. Ma potessimo, in qualsiasi occasione, presentarci a Dio come figli. Mai disperati. Sempre pieni di speranza: «Fratelli, non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti» (4,6).

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