IL VELO STRAPPATO

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A
A noi, operai frustrati che si innervosiscono quando agli altri le cose vanno bene senza tanto sforzo (cf. tre domeniche fa). Noi, abituati a dire troppo spesso “sì” ma poi a non fare.  (due domeniche fa). Noi, così permalosi da diventare persino violenti, quando il Signore si avvicina per cogliere dalla nostra pianta i suoi bei frutti maturi (domenica scorsa). A noi, oggi la liturgia rivolge un’ultima decisiva provocazione. La Parola di questa domenica ci chiede la disponibilità a misurarci con la metafora nuziale. Affinché il velo — quello che c’è o ancora manca nei nostri album fotografici — sia strappato. Anzi, inghiottito dalla bontà e dalla fedeltà del Signore. 

Invitati
C’è un invito da raccogliere nella liturgia di oggi. Anzitutto nelle parole profetiche di Isaia: «Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati» (Is 25,6). Poi in quelle paraboliche del Signore Gesù: «Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze» (Mt 22,2-3). Proposte allettanti che, nella vita di tutti i giorni, difficilmente ci lasciamo sfuggire. A meno che non restiamo incagliati in futili questioni. Tipo: cosa metterci addosso? Cosa regalare? Oppure perché non ne possiamo più dell’ennesimo matrimonio a cui partecipare solo come invitati. Scomoda memoria del nostro patto nuziale, non ancora avvenuto. Eppure le nozze sono semplicemente belle e vere. Dicono che la vita è esodo dalla tristezza. Che la vita è festa, gioia, comunione, allegria, canto e danza. Che siamo nati per stare insieme, banchettare, incontrarci per sempre. Inoltre affermano che tutto questo, prima di essere qualcosa che noi desideriamo, che ci è capitato oppure no(n ancora), è il sogno di Dio. Come eslcama, pieno di speranza, il salmista: «Sì, bonta è fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita» (Sal 22,6).

Ma
Eppure, ci può accadere di non essere sintonizzati su queste belle frequenze. Ci può succedere di avere una brutta reazione di fronte al più bello degli inviti. Non solo per futili motivi o per imbarazzo: «Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari» (22,5). Anche per un misterioso intoppo, sepolto e nascosto dentro noi stessi, che ci fa sentire autorizzati a cedere all’istinto vile dell’aggressività: «altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero» (22,6). Non si sa, non si spiega, non si capisce come mai la storia di salvezza — e la cronaca quotidiana — sia percorsa da un filo rosso di assurde smentite a questo progetto di Dio. E davvero arduo comprender perché, anche nel nostro tempo, il mistero nuziale nella sua forma naturale — il matrimonio tra uomo e donna — debba addirittura riconquistarsi il suo posto al centro della vita sociale e dell’attenzione economico-politica. Le parole di Isaia accendono una luce dentro questo mistero di rifiuto: «(Il Signore) strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni. Eliminerà la morte per sempre. Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto» (Is 25,7-8). Forse stiamo fuggendo da questo destino, scappando dalla possibilità di essere amati, per una fondamentale ragione: per accogliere la gioia del banchetto dobbiamo essere disposti allo strappo del velo, allo scoperchiamento della ferita. 

Ma (bis)
È per questo stesso motivo che Dio non si arrende. Anzi, dilata. Allarga. Invita ancora: «La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze» (Mt 22,8-9). Non essere degni non vuol dire non essere meritevoli, ma non essere disposti ad accogliere il dono. Essere così concentrati su noi stessi e sulle nostre forze da non poter nemmeno immaginare la nostra vita bella perché nelle mani di qualcun altro. Questo è anche il senso del tragico finale della parabola, dove un invitato viene rimproverato aspramente dal re: «Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?» (22,12). Evidentemente non si tratta di un povero denigrato per il suo misero abbigliamento, ma di uno che ha rifiutato la veste offerta a tutti all’ingresso del banchetto. Uno che non si è lasciato (ri)vestire. Uno che non conosce ancora la gioia di chi si è ormai rivestito di Cristo e della sua grazia: «Tutto posso in colui che mi dà forza» (Fil 4,13). Per entrare in questa alleanza con il Signore non serve una forza, se non quella contenuta nella nostra debolezza. Basta essere disponibili allo strappo del cerotto. Occorre lasciar andar via il velo che copre la vergogna che portiamo sul volto e in fondo al cuore. Quel velo a cui ci siamo così affezionati da tenerlo stretto, come un tragico sudario. Letteralmente, Isaia annunciava — molto tempo prima che l’amore di Dio si manifestasse in Cristo — che questo velo non è solo strappato ma addirittura «inghiottito». Come un sasso in fondo al mare. Come un dolore estinto. Come una ferita che non sanguina più. Come qualcosa che ha la forza di riaccendere il canto e la preghiera: «Ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse. Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua sal-vezza» (Is 25,9).

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