MA POI

XXVI Domenica del Tempo Ordinario – Anno A
Il vangelo di domenica scorsa, dove gli ultimi operai venivano ricompensati come quelli della prima ora, ha sicuramente già azzerato i nostri ossidati parametri di fede. Dio ama gratuitamente e desidera donare quello che è e che ha a tutti i suoi figli. Senza distinzioni. In questa domenica le Scritture ribaltano un altro luogo — troppo — comune che regna nel nostro cuore. Il presentimento che Dio ami gente pronta e scattante, sempre piena di buoni sentimenti e dotata di ferma volontà. Dopo l’apologia dei ritardatari, ecco quella degli svogliati. 

Sentire
La parabola dei due figli chiamati dal padre a lavorare nella vigna è fin troppo nota. Il primo figlio dice di non aver voglia, poi però si pente e ci va. Il secondo figlio risponde prontamente — «Sì, signore» (Mt 21,30) — ma alle parole poi non seguono i fatti. La domanda conclusiva del Maestro è quasi imbarazzante: «Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?» (21,31). Potremmo aggiungerne un’altra: “Chi dei due aveva voglia di andare a lavorare nella vigna del padre?”. In realtà, nessuno dei due. Solo che uno ha avuto il coraggio di dirlo, l’altro no. Il Signore Gesù sembra dire che al Padre suo poco importa l’immediata reazione che abbiamo davanti agli appelli della vita. Ai suoi occhi conta soltanto la direzione che i nostri passi prendono. Questo modo di ragionare mette in discussione un grande mito della nostra contemporaneità: la venerazione del “sentire”. Oggi il sentimento è diventato un valore assoluto. Dopo aver posto la libertà come cardine — attraverso le grandi battaglie ideologiche del secolo scorso — ci siamo tutti inchinati al suo discendente diretto: la spontaneità. Liberi e spontanei, ecco l’uomo perfetto nella società del ben essere e del ben sentire. Al punto che le cose fatte per costrizione o contro voglia vengono immediatamente scartate, perché ritenute inautentiche. Forse è venuto il momento di chiederci se le cose stanno proprio così? O se, ancora una volta, il vangelo ha le carte in regola per mettere in discussione il pensiero comune e farci ritrovare sapienza.

Ri-sentire
Se le cose autentiche sono quelle che facciamo volentieri e spontaneamente, come cataloghiamo tutti quegli atti di amore che ogni giorno siamo chiamati a fare stancamente e, non di rado, mal volentieri? Del tipo: svegliarsi nel cuore della notte per allattare il frutto piccolo di un amore, assistere un coniuge o un parente anziano, pulire e accudire persone disabili e disagiate, ascoltare persone sole e depresse, alzarsi per andare al lavoro il lunedì mattina e fare le faccende domestiche quando si è stanchi morti, e chi più ne ha più ne metta. Non serve una laurea in psicologia per capire che l’idolatria del sentire non ha alcuna aderenza con la realtà. Infatti la differenza tra i due figli della parabola non consiste nel fatto che uno è stato bravo e l’altro invece no, ma che uno ha disobbedito alla propria (non) voglia, mentre l’altro non è riuscito a farlo. Matteo ricorre a un verbo greco illuminante per descrivere il pentimento che spinge il primo figlio a rivedere le sue priorità: metamelomai. Tradotto con «pentirsi», significa più precisamente «andare oltre il proprio sentire, oltrepassare la propria volontà». Quante volte occorre fare proprio così, quando qualcosa ci interessa veramente. La nostra storia personale ci mostra come siamo capaci di grandi rinunce e di profonde messe in discussione del nostro sentire, quando si tratta di raggiungere gli oggetti del nostro desiderio. Anche nelle cose grandi della vita — e della fede — questo principio è sacro e santo. Cresciamo e diventiamo adulti soltanto nella misura in cui siamo capaci di non assolutizzare il nostro istinto. Quando siamo disposti a rinnegare noi stessi, direbbe il Signore Gesù.
Con-sentire
Il vangelo non propone certo di rimuovere o trascurare il nostro sentire, ma di saperlo oltrepassare. Non siamo davanti a un invito stoico alla coerenza, costi quel che costi, ma a una spiritualità connotata da grande realismo. Dio è Padre, e non pretende coerenza da noi. Accetta con molta pazienza che il nostro tentativo di rendere la vita aderente alle parole che pronunciamo assomigli a un camminare attorno a un centro. Per questo ci accorda la libertà di non essere coerenti a partire dal rapporto con noi stessi ma di poter tornare continuamente sui nostri passi. Questa è vera e utile sincerità. Se infatti siamo sinceri, dobbiamo riconoscere che quando disobbediamo alla volontà di Dio, cioè quando rifiutiamo di fare quello che la realtà ci chiede, sentiamo un morso nell’anima che ci raggiunge. È il modo con cui la nostra coscienza ci segnala che siamo finiti sul binario sbagliato, che abbiamo obbedito alla nostra piccola volontà anziché a quella di Dio. Questo duello tutto invisibile e interiore ha segnato anche l’esperienza umana di Gesù Cristo, il quale ha esitato di fronte al cammino della croce. Ha provato paura, tristezza, dolore e angoscia, ma poi ha scelto di essere «obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,8). Non ha fatto dei suoi sentimenti un assoluto, ma li ha saputi, per amore, superare, per essere tutto dalla nostra parte: «Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo» (2,6-7). Anche noi possiamo imparare a disobbedire alle nostre (non) voglie fino a scoprire di poter avere in noi «gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (2,5). Mediante il battesimo, che ci ha immersi nel suo mistero di amore, dentro di noi non abita solo la nostra umana fragilità, ma anche lo Spirito Santo che ci rende capaci di accon-sentire agli appelli della vita e ai (ri)morsi del cuore. Spesso le occasioni migliori della vita non sono quelle che attendiamo invano da troppo tempo, ma quelle a cui in un primo momento abbiamo detto: “Non ne ho voglia”. Ma poi...

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