IMPRE(SCI)NDIBILE

Lunedì – XXII settimana del Tempo Ordinario
La confessione di Geremia, con cui ieri abbiamo iniziato una nuova settimana liturgica, può essere un’inedita chiave di accesso alla parola di Dio contenuta nelle letture di oggi. Il «fuoco ardente» (Ger 20,9) presente nel cuore del profeta annuncia la presenza in noi di una forza  insopprimibile, un dono d’amore che può essere solo rivelato e accolto. Sembra essere proprio la fiamma di questa passione ad animare il Signore Gesù nel momento solenne in cui inaugura il suo ministero pubblico secondo il terzo vangelo, di cui oggi iniziamo la lettura cursiva.

«Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. 
Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: 
“Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”» (Lc 4,20-21)

Nella sinagoga di Nazaret, Gesù appare come il messaggero che indugia un istante prima di recapitare la buona notizia della grazia del Signore. È pieno di enfasi quell’avverbio di tempo — «oggi» — con cui il Verbo incarnato annuncia la fine di ogni esilio e di ogni attesa: Dio viene a salvare la sua terra, a liberare tutti i prigionieri e restituire la vista ai ciechi. I concittadini di Gesù storcono però il naso di fronte alla possibilità di identificarsi con poveri bisognosi di salvezza. È quanto accade anche a noi ogni volta che stiamo davanti alla parola di Dio con atteggiamento distaccato, impersonale, asettico. Quando ci sforziamo di comprenderla, anziché accettiamo di farci da essa coinvolgere nel suo movimento di amore. Fortunatamente la grazia del Signore è come il fuoco di cui parlava Geremia: non può essere trattenuto. Né dall’indifferenza, né dall’ostilità. Continua la sua corsa, alla ricerca di altri poveri. Accoglie il nostro rifiuto e posticipa l’incontro con l’altro, col povero che è in noi. 

Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino (4,30)

L’Incarnazione è — e resta — lo scandalo attraverso cui Dio ha scelto di salvare la carne umana. Non si tratta di un concetto da capire, ma di un mistero da accogliere. San Paolo ha maturato una forte convinzione in questo mistero di relazione e di amore. Non certo senza fatica. Per poter parlare ai cristiani di Corinto con tanta forza e risolutezza deve aver profondamente meditato l’esperienza ad Atene, dove la sua parola si è basata più su «discorsi persuasivi di sapienza» piuttosto che sulla «manifestazione dello Spirito e della sua potenza» (1Cor 2,4). Nell’areopago greco Paolo ha provato ad annunciare una risurrezione senza croce, una salvezza lo scandalo della carne. Così, mentre gli abitanti di Nazaret scoprono che l’Incarnazione è un mistero imprendibile, Paolo è giunto alla coscienza di quanto sia anche imprescindibile. Infatti, se il tempo, ormai, è compiuto per sempre e per tutti, Dio non può che attendere il nostro assenso per usarci misericordia. All’unica condizione di saperci riconoscere poveri alla mensa del suo amore. Di proclamarci umilmente luogo dove la sua parola di salvezza, oggi, vuole compiersi. 

«Io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio 
con l’eccellenza della parola o della sapienza. 
Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, 
e Cristo crocifisso» (1Cor 2,1-2)

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