TUTTI FRATELLI

Sabato – XX settimana del Tempo Ordinario
Le indicazioni che il Maestro Gesù rivolge «alla folla e ai suoi discepoli», circa le cattive abitudini religiose di scribi e farisei, sono rivolte oggi a noi. Noi, che pur essendo discepoli di un vangelo, corriamo facilmente il rischi di rimanere imbrigliati nelle trappole di ipocrisia disseminate in ogni sentiero religioso. I farisei sono stigmatizzati per la loro abitudine a compiere gesti non a partire dal cuore, ma dal desiderio di essere visti e riconosciuti. 

«Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente:
allargano i loro filattèri e allungano le frange;
si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, 
dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente» (Mt 23,5-7)

Nessuno può sentirsi mai e del tutto estraneo al fascino che incanta i nostri sensi l'essere riconosciuti, apprezzati, valorizzati e posti al centro delle situazioni. È il modo più ordinario con cui, sin da piccoli, impariamo a riconoscere il valore che la nostra vita ha e i talenti di cui essa è equipaggiata. È pure il modo con cui scopriamo, gradualmente, qual è il nostro posto nel mondo e nella chiesa, a cosa siamo chiamati da Dio a partire dai doni di natura che ci sono stati fatti. Il problema nasce quando ci identifichiamo troppo coi ruoli da assumere. O ci attacchiamo troppo alle persone che hanno avuto un ruolo importante nel nostro sviluppo.

«Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, 
perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli.
E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, 
perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste» (23,8-9)
Diventare (solo) fratelli è un cammino lungo e impegnativo. Pur essendo il compimento di quello che (in realtà) già siamo, esige da noi la rinuncia a tutte le riduzioni e gli accomodamenti che siamo capaci di assegnare a questo bel compito che il cielo affida a ogni uomo e a ogni donna. Si tratta infatti di imparare a vivere dalla consapevolezza che, essendo figli di Dio, non dobbiamo niente e nessuno e nessuno deve niente a noi. Da questa consapevolezza possono nascere le scelte più belle, quelle di servizio e di dedizione. Quelle che possono durare per sempre. 

«Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo;
chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato» (23,11)

Per rimanere in questa coscienza, è necessario non smarrire il senso che la visione profetica è capace di comunicarci. Contemplando la scena della gloria di Dio che entra nel tempio di Gerusalemme con fedeltà e gratuità, noi cristiani non possiamo non pensare che è finito per sempre il tempo di cercare «gloria gli uni dagli altri», ma cercare finalmente «la gloria che viene da Dio solo» (Gv 5,44). Perché il vero tempio, il luogo dove la rilevanza di Dio è pienamente visibile nella storia e nel mondo, siamo noi. Proprio noi. 

«Figlio dell’uomo, questo è il luogo del mio trono e il luogo dove posano i miei piedi,
dove io abiterò in mezzo ai figli d’Israele, per sempre» (Ez 43,7)

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