LA CHIAVE SULLA SPALLA

XXI Domenica del Tempo Ordinario – Anno A
Il Dio leggero, che si è manifestato a Elia nel mormorio di un vento leggero, che in Gesù viene riconosciuto da una donna straniera, capace di scodinzolare come un cagnolino alla mensa della sua generosità, oggi si lascia riconoscere e rappresentare anche dai Dodici, nella figura del loro indiscusso leader: l’apostolo Pietro. 

Indagini
Il Maestro Gesù si trova ancora una volta in zone periferiche, lontano dai luoghi in cui il nome e la presenza del Dio di Israele si impongono con indiscutibile evidenza. La «regione di Cesarèa di Filippo» (Mt 16,13) era una terra ambigua, disseminata di templi pagani. Proprio qui, dove i volti del divino si moltiplicano e si offrono allo sguardio dei passanti,  Gesù decide di interrogare i «suoi discepoli» circa la sua identità: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» (16,13). Subito si improvvisa un sondaggio, alla ricerca dei nomi e dei giudizi che si stanno costruendo attorno alla sua persona: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti» (16,14). Tutti pareri abbastanza allineati: il popolo di Israele sembra ormai persuaso che il falegname di Nazaret sia uno dei tanti uomini inviati da Dio per parlare al suo popolo. Un profeta, appunto. Ma a Gesù questo non basta. Il suo interesse di Gesù si spinge oltre. Così, all’improvviso, la butta sul personale: «Ma voi, chi dite che io sia?» (16,15). Quanto è bello un Maestro desideroso di sapere cosa c’è nel cuore dei suoi discepoli! Sufficientemente sicuro di sé da avere una precisa identità, ma allo stesso tempo rispettoso del cuore — e del passo — altrui da sentire il bisogno di verificare cosa realmente è riuscito a manifestare di se stesso ai loro occhi. Avendo scelto di camminare con noi, il Dio che Gesù ci rivela osserva con profonda attenzione il cammino di ciascuno. Non è schematico e impersonale. Parla, si lascia incontrare, attende. Poi, finalmente, interroga. E ci chiede di aprire il cuore e di rivelare quali pensieri lo abitano. In questa domenica l’ascolto della Parola di Dio contenuta nella liturgia non può evitare il confronto con questa domanda. È il nostro turno di rispondere: “Chi è per noi Gesù?”. Ancora una volta siamo invitati a prendere le distanze dal sentire comune per rifondare il comune sentire sull’azzardo della nostra libertà. 

Rallegramenti
Tutti noi vorremmo poter rispondere con la stessa passione e immediatezza di di Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (16,16). La risposta di Gesù ci aiuta a intuire quanta felicità è accessibile anche a noi, che a distanza di duemila anni ascoltiamo questo vangelo. Pietro non parla da se stesso. Nessuno conosce il Figlio se il Padre non glielo rivela. Non è questione di carne e sangue. Pietro per un attimo ha saputo ascoltare la voce dello Spirito e non quella della sua umanità. La professione di fede dell’apostolo si fonda su questa salda pietra: la consapevolezza che noi, da soli, non siamo nulla. Per dire Tu sei a Gesù, occorre che capiamo chi siamo noi. Non è possibile intuire il Figlio senza, in qualche modo, intuire anche quale sia la nostra provenienza e la nostra vera origine. Ecco perché Gesù rimarca la paternità umana, storica di Pietro, proprio nel momento in cui un’altra, più vera e più profonda, si sta manifestando. Non si tratta certo di entrare in un atteggiamento rinunciatario o di sottovalutarci. Ma semplicemente di fare nostre le parole e il pensiero di Paolo: «O chi gli ha dato qualcosa per primo tanto da riceverne il contraccambio? Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tute le cose» (Rm 11,35-36). Queste sono le chiavi del regno dei cieli, con le quali si può — già in questo mondo — legare ciò che deve durare per l’eternità e sciogliere quello che invece è destinato a durare solo in questo mondo. 

Avvertimenti
L’annuncio profetico di questo incredibile passepartout era stata già offerta da Isaia. Il Signore lo manda a portare un annuncio di fallimento a Sebna, uno straniero arrivista che era riuscito a diventare «maggiordomo del palazzo» (Is 22,18) senza essere per nulla interessato alla vita e alla sorte del popolo del re. Al suo posto — dice Isaia — il Signore collocherà un verso servo, di nome Eliakìm: «Sarà un padre per gli abitanti di Gerusalemme e per il casato di GIuda. Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide: se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire» (22,21-22). Annunciando la figura di un uomo che sarà come un padre, forte e vigile, in grado di custodire e di rilanciare al vita dei propri figli, noi possiamo certamente cogliere un’anticipazione di quello che l’apostolo Pietro sarà all’interno della primitiva chiesa. Proprio a partire da quel primato che Gesù, quel giorno, gli ha pubblicamente riconosciuto. Insomma, se vogliamo crederlo, Gesù è proprio il Cristo, il Messia che è venuto a rivelarci il Padre e a consegnarci le chiavi che introducono la nostra vita nel regno dei cieli. Il grande mistero da accogliere è però questo: queste chiavi non sono un privilegio riservato a qualcuno e precluso ad altri. Perché queste chiavi non si portano in tasca, né si mettono in cassaforte. Come dice il profeta bisogna acconsentire che siano poste sulla spalla, là dove ogni uomo e ogni donna sperimenta il peso della vita, l’umile gloria della croce. Per questo Gesù preferisce chiudere un po’ in sordina l’episodio del suo riconoscimento, anziché lasciarsi andare in festeggiamenti: «Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo» (Mt 16,20). Non certo per spegnere una festa, che dura ormai da duemila anni, quella dei figli di Dio che hanno scoperto l’amore fedele del Padre. Ma per accendere una responsabilità che può portare un grande frutto. Anche noi, infatti, se in questa domenica sapremo dire — non solo a parole — che Gesù è il Cristo diventeremo portatori di una chiave capace di aprire ogni situazione e chiudere la porta a ogni ostilità. Umilmente, potremo indicare al mondo che esiste una vita non più vincolata ai criteri della «carne e del sangue» — così bella, ma anche così piccola. È la vita dei figli di Dio, uomini e donne liberi di non chiedere a nessuno la propria identità, consapevoli che solo Dio sa chi noi siamo e quanto valiamo. Siamo cose sacre, destinate a durare per sempre: «Lo conficcherò come un piolo in un luogo solido e sarà un trono di gloria per la casa di suo padre» (Is 22,23).


Commenti