DI VITA E NON DI MORTE

XXII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A
Dopo lo splendido riconoscimento di Gesù come il Cristo (domenica scorsa), a Pietro capita subito di fare una solenne figuraccia, rivelando di avere un cuore affollato da pensieri scandalosi, difformi dai progetti di Dio. La sofferenza immeritata e il dolore innocente non rientrano tra i costi che egli è disposto a pagare, perciò tenta di rimuovere dall’orizzonte lo scandalo della croce, appena annunciata dal Maestro come inevitabile destino. Mentre lo apostrofa con fermezza, il Signore Gesù prende l’occasione per ribadire a tutti i discepoli che il vangelo è scuola di vita e non di morte. 

Panico
Già nel finale del vangelo di domenica scorsa Gesù aveva lanciato un avvertimento al gruppo dei Dodici, in festa per l’azzeccata intuizione di Pietro: «Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo» (Mt 16,20). Nella seconda parte del vangelo che ascoltiamo in questa domenica, l’invito a non cantar vittoria troppo in fretta si perfeziona. Il Maestro comincia a spiegare ai discepoli che egli «doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno» (16,21). D’improvviso, il panico si diffonde nel cuore dei suoi amici. Ancora una volta Pietro prende per primo la parola, trae «in disparte» Gesù e, senza troppi problemi, «si mise a rimproverarlo dicendo: “Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai”» (16,22). Forte dell’autorità appena ricevuta, Simone dà fiato ai pensieri che tutti coviamo nel cuore e tenta di invertire l’ordine di marcia, mettendosi davanti al Maestro. Lo fa con sincero e immaturo affetto, provando a prendersi cura di Dio più di quanto egli stesso sembri disposto a fare. Talvolta è proprio così: chi ci vuol bene  ci consiglia male, perché non ha il coraggio di leggere le cose a partire dalla parola della croce. La paura riesce facilmente a regnare in mezzo a noi — ai nostri rapporti, alle nostre comunità — quando tentiamo di condividere letture accomodanti della realtà, pur di non misurarci con il dolore che la vita chiede a tutti di accogliere e assumere. 

Scandalo
Immediata, lucidissima la replica di Gesù: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» (16,23). La roccia che ha riconosciuto nella carne del Rabbì di Nazaret il Figlio di Dio è ora chiamata «Satana». Il discepolo in cui risuona la voce del Padre è pure il luogo in cui si manifesta la menzogna del serpente antico. Proprio così: il discepolo di Cristo può essere portatore di luce e di tenebra. Gesù definisce Pietro uno scandalo perché il suo «modo di pensare» si pone in contrasto con «la volontà di Dio» (Rm 12,2). La nuova traduzione — che traduce «dietro a me» il celebre «lungi da me» — mette in evidenzia quanta assurda pretesa ci sia in noi quando non siamo disposti a condividere i disegni di Dio. Ci mettiamo davanti a lui e gli chiediamo di seguirci nei — soli — cammini che siamo disposti a percorrere. Diventiamo scandalo e satana ogni volta che tentiamo di imporre a Dio e agli altri il cammino che corrisponde ai nostri sogni di gloria o che si adegua alla piccola logica delle nostre insicurezze.

Vita
Dopo aver ripreso personalmente Pietro, a tutti i discepoli il Signore detta le condizioni per entrare nella libertà dei figli di Dio: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16,24-25). Non si tratta di una rielaborata apologia della sofferenza, da accogliere con coraggio e umiltà, ma di un tentativo di «spiegare» — per quanto possibile — come la logica della croce sia una questione di vita e non di morte. Il Signore Gesù non propone ai discepoli di compiere un arbitrario «sacrificio vivente» (Rm 12,1) di se stessi. Quasi che il cielo o la terra ne abbiano in qualche modo bisogno. Sta invece annunciando che la vita piena — quella che cresce fino a diventare dono di sé — non può smettere di espandersi quando incontra il rifiuto e la sofferenza. Nella voce del Maestro Gesù possiamo riconoscere l’eco del profeta Geremia: «Nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (Ger 20,9). La parola della croce è l’annuncio di una missione e dell’inevitabile dolore che essa comporta. Amare, servire, donarsi comporta sempre un dolore e una sofferenza in questo mondo, ancora così tragicamente segnato dal peccato. Certamente c’è in tutto questo una dimensione di sacrificio, da non accogliere però con vittimismo. La chiamata a morire e risorgere è in funzione di una vita piena. Si segue il Signore nella via della croce per entrare nella libertà della risurrezione, per avere la pienezza. Si svuotano le mani da una vita piccola e il cuore da false paure per accedere a una vita più grande, per entrare nella «gloria del Padre»  (Mt 16,27) e in quella dei «figli di Dio» (Rm 8,21). Di questo semmai conviene aver paura: non che la croce arrivi, ma che quando giunge non sappiamo accoglierla e viverla come occasione per «trasformare» (Rm 12,2) i nostri «corpi» in amore. 

Commenti