CONSIDERARE LA CHIAMATA

Sabato – XXI settimana del Tempo Ordinario
La parabola che la chiesa oggi ascolta come un vangelo è un racconto nel quale facilmente ci troviamo accolti e scrutati. Parla di come noi tutti siamo (stati) chiamati alla vita e a collaborare con Dio per il suo incremento. Nell’immagine dei servi a cui un padrone generoso affida tutte le sue sostanze prima di andarsene si colloca il viaggio della vita di tutti. Il padrone fa questo affidamento con una squisita attenzione alla diversa «capacità» (lett. forza) di ciascuno. Soprattutto lo fa senza fretta, accordando ai servi «molto tempo» per custodire e fruttificare i talenti ricevuti. 

«A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, 
secondo le capacità di ciascuno; poi partì» (Mt 25,15)

Sebbene tutti vorremmo subito poterci identificare con i primi due servi, che riescono a dilatare il bene ricevuto, la parabola è evidentemente costruita affinché facciamo lo sforzo di misurarci piuttosto con l’ultimo servo. Vinto da logiche di paure, egli non è riuscito a fare quello che almeno degli estranei avrebbero potuto o dovuto fare, secondo il rimprovero del padrone. 

«Avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri 
e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse» (25,27)

Ecco, il punto: non c’è stato alcun interesse, nessun interessamento alla vita ricevuta in dono e in custodia. Solo paura. È mancata la gioia di seminare e di disperdere, la gioia di versarsi. Al limite anche quella di sciupare i talenti ricevuti, come ha fatto il figliol prodigo con le prostitute (cf. Lc 15,13). Ma soprattutto — ed è questo il dolore del padrone — è mancata la gioia di sentire come proprio il dono ricevuto. Triste, laconico, il tentativo di assolvere la propria coscienza da parte del «servo inutile»:

«Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra:
ecco ciò che è tuo» (25,25)

È l’immagine di una persona troppo concentrata su di sé. Troppo perfezionista. Troppo timorosa di sbagliare. Tutti indizi di avvelenata comprensione della «chiamata» del Signore. Diventano infuocate le parole con cui l’apostolo richiama i cristiani di Corinto alla radice del loro battesimo in Cristo Gesù. 

«Considerate la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, 
né molti potenti, né molti nobili. Ma quello che è stolto per il mondo, 
Dio lo ha scelto per confondere i sapienti» (1Cor 1,26-27)

Smarriamo la chiamata di Dio — e il suo senso profondo — ogni volta che interpretiamo le chiamate della vita a partire dalle nostre (residue) forze, e non come appelli a offrire la nostra debolezza, affinché possa trasformarsi in «giustizia, santificazione e redenzione», a causa del nostro essere «in Cristo Gesù» (1,30). La ritroviamo quando ci ricordiamo che siamo — sempre — chiamati a una sola cosa: imitare la generosità del padrone, seminare, fidarci e affidarci. Dentro e oltre la nostra povertà.


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