TOLLERANZA PIENA

XVI Domenica del Tempo Ordinario – Anno A
Dopo aver iniziato a farci conoscere i misteri del regno dei cieli con la parabola del seminatore, questa domenica il Maestro Gesù ci racconta «un’altra parabola» (Mt 13,24). Anzi, tre. Questo modo di parlare attraverso immagini avviene in un momento della sua vita in cui le cose non si stanno mettendo troppo bene per lui. «I farisei» si sono già accordati «per toglierlo di mezzo» (12,14), ritenendolo un inviato di di Satana (cf 12,22-24), i suoi parenti sono sconcertati sentendolo chiamare «madre» e «fratelli» i suoi discepoli, che lo ascoltano e imparano a compiere la «volontà del Padre» (cf 12,49-50). È proprio in questo momento che Gesù si ferma e regala ai discepoli un po’ smarriti un piccolo trattato di speranza, per imparare a guardare le cose non con agitazione e paura, ma con la pazienza e la bontà che abitano il cuore di Dio. 

Bene (e male)
Delle tre parabole contenute nel vangelo di oggi, una sembra toccare maggiormente il cuore dei discepoli che si affrettano a chiedere a Gesù: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo» (13,36). Certo, è splendida l’immagine del «granello di senape» (13,31) che, inarrestabile, si trasforma in un «albero» (13,32); illuminante quella dell’invisibile «lievito», capace di far crescere tutta la «farina» (13,33). Sono metafore che regalano un’immediata speranza e spingono a pensare: “Ma sì, le cose alla fine andranno bene”. Però la parabola più intrigante è quella della zizzania, perché affronta un tema delicato, difficile da vivere e pure da definire: la presenza del male accanto al bene. Prima che i proverbiali fiumi di inchiostro fossero versati, innumerevoli pagine di romanzi scritte, pellicole cinematografiche girate, il Signore Gesù ha detto la sua a proposito di un tema così cruciale Il racconto è piuttosto semplice: il regno dei cieli è come un uomo che ha seminato del buon seme, ma quando il grano cresce appare anche la zizzania che un nemico, durante la notte, ha seminato nel campo. Fuori metafora: il bene e il male sono coinquilini, convivono e crescono insieme. Dio ha accordato alla creazione una certa libertà che non è revocata quando qualcuno decide di utilizzarla in malo modo. La reazione dei servi — cioè la nostra — sorge spontanea: «Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?» (13,27). Dietro a questo disappunto, vestito di buon senso, è possibile riconoscere un certo (pre)giudizio, una velata accusa a Dio di essere, tutto sommato, un «giudice ingiusto» (Sap 12,13). 

Mitezza
In effetti — come già osservava l’autore del libro della Sapienza — Dio esercita il suo «potere» (12,18) e gestisce la sua «forza» (12,16.17.18) in modi abbastanza paradossali. Invece di sbaragliare nemici e ribelli, egli che è il «padrone della forza» sceglie di giudicare «con mitezza» e di governare ogni cosa «con molta indulgenza» (12,18). Di questo dovremmo essere tutti molto contenti, e invece giudichiamo come debolezza questo modo di prendersi cura di «tutte le cose» (12,13), non crediamo nella «pienezza» di questo suo «potere» (12,17). Al contrario, la mitezza di Dio non è da intendersi come impotenza o fragilità di carattere, ma come volontà e capacità di dominare la propria forza, di governarla, di addomesticarla, di orientarla sempre per vie costruttive. È una forza d’amore che si radica in una fiducia ostinata nella bontà seminata nell’uomo e si esprime nella ferma volontà di attendere i suoi tempi di maturazione. È a causa di questa forza inerme che Dio concede «dopo i peccati» la possibilità del «pentimento» (12,19). Siamo noi che crediamo di essere molto forti e invece ci riveliamo piuttosto deboli, quando tentiamo infantilmente di rimuovere il male compiuto o, almeno, di occultarne le tracce. Chiedendo poi devotamente a Dio di firmare l’autorizzazione per farlo: «Vuoi che andiamo a raccogliere la zizzania?» (Mt 13,28). Decisa la risposta del padrone ai servi: «No». E spiega: «Perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme» (13,29-30). Dio non autorizza i nostri istinti di pulizia e di giustizialismo. Non alimenta i nostri perfezionismi. Ci insegna ad avere pazienza, persino di fronte al manifestarsi delle tenebre in mezzo alla luce.

Pazienza
Questa pazienza che Dio ha nei nostri confronti è scandalosamente bella. Ed è l’unica, convincente spiegazione che noi discepoli possiamo stringere tra le mani di fronte all’oscuro scenario della vita quotidiana, dove il male sembra spesso prosperare più e meglio del bene. Non sta a noi giudicare le cose che non vanno, a cominciare da quelle bizzarre e incomprensibili che fioriscono nella terra del nostro cuore. A noi spetta il compito di essere pazienti e mossi dalla speranza, sapendo che il campo della storia è stato seminato a grano buono, che in mezzo a ogni vicenda umana il Padre ha posto il segno invincibile della croce di Cristo. Se c’è qualcosa che invece possiamo riconoscere con schiettezza è invece la «nostra debolezza», l’unico luogo dove ci «viene in aiuto» lo «Spirito» (Rm 8,26), l’unico posto in cui siamo uguali a tutti gli altri, nostri fratelli. Solo la coscienza di quanta debolezza abita in noi ci insegna a essere pazienti e a credere in un Padre — non padrone — che esercita il suo potere solo quando è tempo di farlo, insegnandoci in questo modo a essere indulgenti e amorevoli verso gli altri e verso noi stessi, ad «amare gli uomini» (Sap 12,19), attraverso la forza dello «Spirito» (Rm 8,27) che tiene viva dentro di noi quella «buona speranza» (Sap 12,19) che è anche dentro il cuore di Dio. I nostri peccati, il male del mondo, la zizzania presente in ogni bella avventura che viviamo non sono l’ultima parola, ma il segno del drammatico travaglio da cui potrà nascere una nuova umanità, quella dei figli di Dio che, un giorno, «splenderanno come il sole nel regno del Padre loro» (Mt 13,43).

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