(IN)DIFFERENZA

Giovedì – XV settimana del Tempo Ordinario
La parola profetica, nella liturgia di oggi, esordisce con un vero e proprio grido. Il Signore chiede a Geremia di alzare la voce e di turbare l’apparente quiete di Gerusalemme, per segnalare con forza una situazione di vergogna e di contaminazione. Dopo aver mangiato i frutti e i prodotti della terra, il popolo di Israele si è dimenticato di Dio e si è volto agli idoli.

«Due sono le colpe che ha commesso il mio popolo: ha abbandonato me, sorgente di acqua viva,
e si è scavato cisterne, cisterne piene di crepe, che non trattengono l’acqua» (Ger 2,13)

Tra i due peccati è persino difficile stabilire quale sia il più grave, se l’abbandono della sorgente o la costruzione di recipienti difettosi. Il profeta illustra la realtà del peccato che è sempre un volgere le spalle alla sorgente per incaricarsi personalmente del reperimento dei beni necessari all’esistenza. Il peccato è sempre una medaglia a due facce, da una parte c’è l’oblio di Dio, dall’altra l’affanno per la realizzazione in autonomia della nostra vita. Abbandonare di Dio e creparsi: questo è la tragica possibilità con cui la voce profetica ci chiede di confrontarci. Ma ciò che la profezia vuole rivelarci è soprattutto quale sentimento modula la voce e la santa rabbia di Dio

«Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento,
quando mi seguivi nel deserto, in terra non seminata» (2,2)

Ecco perché serve al profeta — e a noi — la potenza di un grido. Perché in Dio convivono due realtà antitetiche ai nostri occhi: il ricordo del nostro bene e la lucida coscienza del male di cui siamo capaci. Ma, essendo «cosa sacra al Signore», questo cantiere aperto della nostra vita non cessa mai di essere ricordato e salvato con fedele amore. Va in questa stessa direzione il discorso in parabole di Gesù, per il quale i discepoli chiedono spiegazioni. Gesù non motiva il suo ricorso al linguaggio figurato, ma precisa quale situazione contingente lo spinga a parlare così e non in un altro modo. 

«Per questo a loro parlo con parabole: 
perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono» (Mt 13,13)

Il cuore — grande — di Dio si adatta a ciascuno di noi. Ci raggiunge e ci incontra là dove stiamo camminando o nel posto in cui ci siamo arenati. Là dove i nostri occhi riescono a vedere, oppure là dove si sono ormai consegnati all’angoscia di una tenace oscurità. Forse questa capacità di rapportarsi diversamente, modulando con libertà e rispetto forma e contenuti, è proprio un tratto della natura divina. Una meravigliosa forma di accondiscendenza, che anche noi possiamo assimilare e imparare vivere. Il Signore fa differenza, perché per lui ogni carne non è indifferente ma qualcuno da amare. Per questo la luce del Regno arriva ad alcuni attraverso il velo della parabola. Ad altri, invece, con una sfacciata dichiarazione di felicità. 

«Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: 
molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, 
e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!» (13,16-17)

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