COME CUSTODI(TI)

Mercoledì della VII settimana di Pasqua
L’accostamento tra il commiato di Paolo e il discorso di addio del Signore Gesù non finisce di riservare sorprese ai credenti in attesa del fuoco di Pentecoste, che tra pochi giorni la chiesa rivive nella fede. Dopo aver annunciato un imminente destino di gloria, a cui i discepoli non devono sentirsi estranei, il Figlio rivolge al Padre una preghiera ben mirata. Così come ha insegnato a pregare senza sprecare parole, così nella “sua ora” Gesù chiede solo il necessario per i suoi amici. 

«Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal maligno» (Gv 17,15)

Custodire qualcuno (o qualcosa) significa circondarlo di affetto, premura e attenzione. Vuol dire dedicare tempo, energie, fantasia affinché la vita dell’altro non solo possa manifestarsi e crescere nella libertà, ma sia anche tutelata nei confronti di tutto ciò che può nuocere al suo armonioso sviluppo. Senza però indulgere in logiche di paternalismo o assistenzialismo, nelle quali scompare la distanza necessaria affinché si possa manifestare anche il mistero del rifiuto e della non accoglienza.  

«Quand’ero con loro, io li custodivo nel tuo nome, quello che mi hai dato, 
e io li ho conservati, e nessuno di loro è andato perduto,
tranne il figlio della perdizione, perché si compisse la Scrittura (17,12)

La voce dell’apostolo Paolo rende la preghiera di Gesù particolarmente comprensibile, perché calata nel contesto vitale della primitiva comunità cristiana. Al suo interno, il bisogno di custodire ed essere custoditi non si è affievolito dopo il dono dello Spirito Santo effuso dal Risorto. Al contrario si è intensificato, diventando l’imperativo di ogni gregge che desidera rimanere fedele suo Pastore buono e bello.  

«Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti 
come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio, 
che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio» (At 20,28)

I lupi rapaci che — sempre — si nascondono nel gregge delle pecore autentiche e dei pastori vicari sono coloro che sentono il bisogno di esercitare il potere del dominio e della seduzione, avendo smarrito la gioia di lavorare gratuitamente. E la beatitudine riservata a chi smette di pensare — e impostare — la propria vita sempre con un’ossessiva attenzione alla colonna delle entrate. 

«[...] ricordando le parole del Signore Gesù, che disse: 
“Si è più beati nel dare che nel ricevere!”» (20,35)

Questa dedizione al dono e ai fratelli, anziché all’accumulo e a se stessi, non è il frutto di una stringente morale o di una meticolosa attività di epurazione delle “mele marce” tra i credenti. È il frutto di una vera e propria consacrazione, che il Signore Gesù ha compiuto sui suoi discepoli. Su di noi, che oggi possiamo scegliere di non essere più camminatori solitari e stanchi. Ma inviati nel mondo a causa di una parola di verità.

«Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo;
per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità» (Gv 17,18-19)

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