ESTASI

Lunedì – IV settimana del Tempo di Pasqua
I discepoli faticarono non poco, dopo la Pasqua, per rimanere fedeli alle proprie tradizioni ma pure alla grande trasformazione della storia operata da Cristo. Il libro degli Atti racconta come non fu facile, eppure inevitabile, per gli apostoli comprendere e accettare l’universalità del vangelo. Dopo essersi seduto a mensa con alcuni pagani che avevano accolto l’annuncio pasquale, Pietro sembra quasi doversi giustificare davanti a cristiani di origine giudaica, per aver mangiato — con tanta libertà di spirito — quei cibi considerati impuri dalle norme giudaiche.  

 «Nuovamente la voce dal cielo riprese: “Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo profano”.
Lo Spirito mi disse di andare con loro senza esitare» (At 11,9.12)

Pietro ricorre a un vocabolo particolare per descrivere la sua condizione interiore che lo spinge ad andare con coraggio, «senza esitare» (11,12), verso i pagani. Parla di una vera e propria «estasi» (11,5), grazie alla quale è in grado di accedere a una visione fino a quel momento sconosciuta o temuta. Trovarsi in estasi — al di là delle sue valenze poetiche — significa essere condotti fuori da se stessi, oltre i propri consueti orizzonti. Infatti, il latino traduce questa condizione con excessus mentis

«Mi trovavo in preghiera nella città di Giaffa e in estasi ebbi una visione: un oggetto che scendeva dal cielo, 
simile a una grande tovaglia, calata per i quattro capi, e che giunse fino a me» (11,5)

La preghiera nel e al Signore risorto è capace di suscitare un simile terremoto nella vita del discepolo in ascolto. Ciò che prima era temuto diventa, improvvisamente, familiare. Ciò che prima sembrava impuro, finalmente degno di accoglienza. Questa è la dinamica inclusiva della Pasqua: uno sguardo sulla realtà finalmente in grado di vedere le cose, le persone e le situazioni non a partire da quello che mi possono dare, ma dal mio potere di donarmi a esse, affinché — anche attraverso il mio dono — siano più vere, libere, felici. Questa era la coscienza che ha condotto Gesù nella densità del mistero pasquale.

«Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore» (Gv 10,11)

Il Signore Gesù è potuto uscire da se stesso ed entrare nell’abisso della nostra solitudine perché non ha visto la mensa della nostra vita come un recinto impuro, da valutare e selezionare. Ha guardato a noi come «altre pecore», come lui fedelmente conosciute e amate dal Padre. Fratelli a cui trasmettere quel potere che diventa persino una legge irrinunciabile, nel momento in cui getta nel nostro cuore la fiamma del desiderio più grande: uscire da noi stessi per non appartenerci più. E così, nell’amore, avere per sempre la vita. 

«Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo [...]
Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio» (10,17.18)

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