VENIRE FUORI

V Domenica – Tempo di Quaresima
Dopo averci fatto meditare alcuni aspetti problematici della nostra vita (il cuore che ha sete, gli occhi che non vedono), in questa domenica la liturgia ci fa affrontare il grande problema della vita: la morte. È indispensabile scrutare questo lato oscuro dell’avventura umana, per non correre il rischio che i nostri giorni restino una fuga — coatta e inutile — da ciò che sappiamo essere il sicuro punto d’arrivo dei nostri passi. Per accogliere il vangelo di oggi non servono particolari attitudini. Solo la disponibilità ad ascoltare il grido che il Signore Gesù fa risuonare dentro il nostro sepolcro. 

Solo Dio
È davvero misterioso il comportamento di Gesù. Quando viene a sapere che il suo amico Lazzaro «è malato» (Gv 11,3) non fa nulla, anzi rimane «per due giorni nel luogo dove si trovava» (11,6). Non ci appare immediatamente ragionevole, anzi misericordioso, un simile atteggiamrnto. Anche perché — assicura l’evangelista — «Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro» (11,5). Perché, allora, si limita a dire che «questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio» (11,4), rimanendo però inerte e passivo? Per offrire un segno che indichi, senza equivoci, che la capacità di dare e restituire la vita è una prerogativa di Dio, come già affermavano i profeti: «Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele» (Ez 37,12). Gesù intuisce che è giunto il momento in cui è ormai necessario riconoscere in lui la presenza di Dio: «Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio» (37,14). Infatti Gesù non rimane fermo del tutto, dopo la meditata pausa si incammina verso l’amico Lazzaro quando è ormai «morto» (11,14) ed è «già da quattro giorni nel sepolcro» (11,17). Appena la sorella Marta viene a sapere che «veniva Gesù» gli va incontro e gli dice: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» (11,21). Anche noi crediamo che se Dio ci fosse, alcune cose non succederebbero e non dovrebbero succedere. Confidiamo in un Dio amico e protettore, che ci evita dolore e sofferenza. E infatti la nostra fede spesso si limita a non fare il male, si accontenta di contenere i danni. Invece a Dio non basta questa legittima, ma parziale, aspettativa di vita. Vuole introdurci in una esistenza piena, libera dal timore di giocarsi fino in fondo. Anche noi, come Marta, sappiamo che ogni uomo «risorgerà nell’ultimo giorno» (11,24), ma non abbiamo ancora compreso che in realtà l’ultimo giorno è adesso, perché Gesù è la Risurrezione, perciò chi «vive» e «crede» in lui, «anche se muore, vivrà» (11,25). «Credi tu questo?» (11,26) chiede Gesù a Marta e a ciascuno di noi. 

Solo il peccato
È vero che un giorno ciascuno di noi dovrà morire. Ma è molto più vero che fin d’ora, noi viviamo condizionati dalla paura che la morte esercita e insinua nel nostro cuore. Questa tenebra, invisibile e potente, è il motore di quel filo rosso della storia umana che la Bibbia chiama peccato. Il problema del mondo non è che si muore — chissà poi come faremmo a convivere sul pianeta se diventassimo tutti eterni e fecondi?! — ma che nel cuore dell’uomo regna il peccato, quella pessima risposta con cui proviamo a reagire alla paura di morire, scatenando la tenebra dell’egoismo che è dentro di noi. San Paolo non esita a formulare una netta diagnosi, parlando al cuore dei primi cristiani: «Il vostro corpo è morto per il peccato» (Rm 8,10). E non certo per indulgere in pessimismi, ma per annunciare la salvezza di Dio: «Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito» (8,9). Il Signore Gesù non sembra affato intimorito di fare i conti con questa parte di noi, oscura e infelice. Gli va incontro, sfidando il suo «cattivo odore» (11,39). Allora — non prima — si avvicina al nostro dolore e alla nostra povertà. Non con freddezza e distacco, ma come un discepolo misericordioso e compassionevole dei nostri sentieri interrotti. 

Solo l’amore

Giunto di fronte alla tomba di Lazzaro, Gesù scoppia «in pianto» (11,35), perché «amava» (11,36) il caro amico senza più vita. Dio piange davanti al nostro male, si turba, si commuove. Versa quelle lacrime che forse nemmeno noi riusciamo piùa versare per i nostri peccati. Dio ama la nostra vita più di quanto noi la amiamo e, se lascia che la morte avvenga, lo fa soltanto perché impariamo a riconoscere la sua presenza d’amore in mezzo alle nostre tenebre e al nostro cattivo odore. Poi dice al morto — facendo una cosa palesemente assurda — «Vieni fuori!» (11,43). E il morto esce, torna alla vita. Alla vista di questo prodigio molti «credettero in lui» (11,45). L’ultimo segno che Gesù compie fa risorgere soprattutto il cuore di tutti i presenti, mentre il povero Lazzaro dovrà riaffrontare ancora una volta l’esperienza della morte fisica. E così ora noi sappiamo che Dio non ci salva dalla morte, ma nella morte. Non ci toglie quel limite che ci è necessario per esistere, né la dignità di esserne coscienti. Ci offre la grazia di comprenderlo e di viverlo in modo nuovo. La Pasqua ormai imminente è anticipata dall’episodio di Lazzaro, l’amico del Maestro Gesù, che viene strappato dal disfacimento della morte. Come la voce del Signore, piena di amore e di affetto, ha potuto strappare l’amico dalla momentanea presa della morte, così noi possiamo essere strappati da tutti i legami di morte che ancora ci impediscono di camminare liberi verso la vita eterna. Dobbiamo essere disposti a farci incontrare nel profondo dei nostri sepolcri, al di là di quelle maschere che sempre indossiamo per apparire rispettabili e amabili agli occhi degli altri. Anche quelli di Dio. Il quale, invece, sta già ardente d’amore davanti al nostro sepolcro. Pronto a introdurci in una vita nuova, non appena diamo ascolto al suo potente grido d’amore: «Vieni fuori!» (11,43).

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