RIPARTIRE DAL SEPOLCRO

Pasqua di risurrezione – Anno A
I giorni nel deserto della nostra umanità sono finiti: è la Pasqua del Signore! Se abbiamo provato a vivere la Quaresima con un minimo di sincerità, ci saremo accorti che qualcosa non va. Non tanto nella nostra società, stretta nella morsa della crisi e dell’ansia. Non solo perché non si trova lavoro, si soffre e si muore. Qualcosa non va dentro di noi. Non sappiamo vivere bene. Non siamo capaci di amare, di accogliere la gioia e la fatica dei giorni che scorrono. Siamo peccatori, stupende creature di Dio, a cui però capita di fallire gli obiettivi più importanti della vita. La memoria della passione e morte del Signore ci ha ricordato che non siamo diversi dai primi testimoni di Cristo. Anch’essi, affascinati dalla sua parola, si sono scoperti incapaci di corrispondere alla libertà del vangelo. Hanno tradito, rinnegato. Sono fuggiti. Il Signore Gesù li conosceva bene, sapeva di che fragile pasta erano fatti. E, per questo, ha voluto amarli fino in fondo. Fino alla fine. Fino alla morte. Anzi, fino alla risurrezione. La pasqua di Cristo si fonda su un minuscolo segno di speranza, un sepolcro vuoto. La sua forza è però quella di un terremoto. Il vangelo ce la racconta. 

Noi sappiamo
Noi sappiamo quello che è accaduto «in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret» (At 10,37-38). Non diversamente dalle prime persone che hanno assistito — quasi in diretta — al mistero pasquale del Signore Gesù, anche noi conosciamo i fatti per filo e per segno. Ogni anno riascoltiamo la cronaca della passione, morte e risurrezione del Signore Gesù. Siamo persino preparati dalle scritture del Nuovo testamento a una profonda riflessione teologica circa il suo significato. Insomma, la notizia della risurrezione appartiene al patrimonio della cose più sacre e belle che sappiamo, festeggiamo, celebriamo. Ignorante è forse il mondo in cui viviamo, che si scambia auguri di serenità e uova di cioccolato, senza sapere il motivo per cui il calendario in questi giorni offre il diritto di avere la luce nei volti e la gioia nel cuore, anche in mezzo alle più grandi difficoltà. Un mondo che ormai non sa più che nella storia si è accesa un’invincibile e meravigliosa luce che illumina ogni uomo, non solo la vaga speranza che il futuro abbia ancora qualcosa da regalarci.

Eppure
Eppure, le parole dell’apostolo ci costringono a chiederci se il logorio del tempo, l’usura della secolarizzazione, l’abitudine della fede non abbiano intaccato un po’ anche l’autenticità della nostra gioia. Come sempre, le sue parole sono semplici e dirette: «Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio» (Col 3,1). Stiamo davvero cercando le cose di «lassù», cioè stiamo investendo sulle cose che durano sempre, sulla logica dell’amore vero, quello che muore e risorge? In altre parole, quali sogni stiamo (in)seguendo? Quali desideri alimentano i nostri giorni? Per quali progetti consumiamo le fibre del cuore e dell’intelligenza? Il mistero pasquale ci annuncia che un modo di vivere davvero nuovo non può che prendere avvio da un modo anche diverso — senza paura — di accogliere il simbolo della morte: «Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio!» (3,3). Vivere nascosti non significa esistere sottotono, cavalcare i giorni con timidezza. Al contrario, vuol dire osare senza temere il rifiuto o il giudizio, abbracciare misure piene senza timore di fallimento, donarsi senza continuare a verificare quanti pollici alzati sono d’accordo con noi.

Abbandonare
Le donne vanno al sepolcro, piene di amore e di tristezza. A loro basterebbe poter stringere il corpo del Signore, visitare la sua tomba, per ravvivare anche il ricordo. Invece accade qualcosa di straordinario. Un terremoto sovverte ogni loro certezza. Anche quella di poter continuare a piangere. Anche il diritto di restare chiuse nel monolocale della tristezza: «Un angelo del Signore, infatti, sceso dal cielo, si avvicinò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa» (Mt 28,2). Il primo evangelista descrive l’apertura della tomba proprio in faccia al dolore silente delle donne. Fa sfacciatamente esplodere il mistero dell’apertura della tomba proprio al cospetto di coloro che avevano creduto in Gesù e nel suo amore. È lo stesso atteggiamento della chiesa che, come un angelo seduto sulle macerie del mondo, ogni anno — ogni giorno in realtà — annuncia umilmente a ogni uomo che non esiste alcun sepolcro che non possa essere spalancato dall’amore fedele di Dio. Anzi, che la vita vera non può che ripartire dal sepolcro, dove ogni traiettoria finisce e ricomincia, grazie all’amore di Dio. Di fronte al terremoto di questa bella notizia, resta un’ultima — unica — mossa. Le donne — sempre intuitive — lo capiscono subito: «Abbandonato in fretta il sepolcro con timore e gioia grande, le donne corsero a dare l’annuncio ai suoi discepoli» (28,8). Pasqua è abbandonare il sepolcro, voltare le spalle alla morte, lasciare a terra timori e sospetti, non rimandare più le scelte decisive. Smettere di vivere da mortali e cominciare e essere dei viventi. Perché siamo nati e non moriremo mai più. Solo una volta. Per risorgere con Cristo a vita eterna. 

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