OLTRE L'APPARENZA

IV Domenica – Tempo di Quaresima
Se l’acqua viva che la Samaritana ha incontrato nella parola e nel volto luminoso di Cristo ha saputo dare ristoro al nostro cuore in conversione, siamo pronti a entrare nella luce di questa quarta domenica di Quaresima, tradizionalmente chiamata domenica Laetare. L’origine dell’espressione deriva dalle parole del profeta Isaia che la liturgia ha scelto come antifona d’ingresso: «Rallegrati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate riunitevi». Superata ormai la metà del cammino quaresimale, la Chiesa intravede già la luce della gioia pasquale, lasciando che il suo candore modifichi anche il colore dei paramenti liturgici che, in questa domenica, possono essere rosa anziché viola. I testi biblici offerti per la meditazione sono luce che invita a uscire dalle tenebre della tristezza e della rassegnazione: «Svégliati, tu che dormi, risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà» (Ef 5,14).      

Chi?
«Un uomo cieco dalla nascita» (Gv 9,1) è la figura evangelica che — quasi prendendoci per mano — ci costringe a verificare quanta e quale luce c’è nei nostri occhi. Passando accanto a lui, che se ne stava silenziosamente «seduto a chiedere l’elemosina» (9,8), i discepoli interrogano il Maestro circa la sua triste condizione: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?» (9,2). La domanda è interessante, perché rivela come il nostro modo di vedere e leggere la realtà sia guidato dal principio di causa-effetto. Si tratta di una griglia di lettura legittima e ragionevole in molti ambiti dello scibile umano, ma incapace di farci cogliere il significato profondo di alcune porzioni di realtà, dolorose da riconoscere e dure da accettare. Ecco da quale tenebra i nostri occhi hanno bisogno di essere riscattati, da un certo modo di fissare la realtà delle cose badando più «al suo aspetto» e «alla sua alta statura» che al suo «cuore» (1Sam 16,7). Persino il profeta Samuele, da una vita intera abituato a porgere l’orecchio alla parola del Signore, scopre di dover aguzzare meglio la vista per poter capire e annunciare le scelte di Dio. Davanti ai «sette figli» di Iesse, Samuele è continuamente chiamato a passare da ciò che gli sembra «certo» (16,6) a ciò che «il Signore vede» oltre «l’apparenza» (16,9), fino a proclamare: «Il Signore non ha scelto nessuno di questi» (16,10). La risposta, quasi desolata, di Iesse è in realtà una vera e propria profezia: «Rimane ancora il più piccolo» (16,11). La risposta di Iesse è una chiave per entrare nel senso profondo del racconto evangelico che ci mostra un «piccolo», povero cieco i cui occhi incontrano — senza merito e senza premeditazione — la «luce del mondo» (Gv 9,5) nel volto di Cristo.   
  
Perché!
Il Signore Gesù offre ai discepoli una risposta che li obbliga a modificare l’orientamento della loro ricerca, passando dal “chi” al “perché”: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio» (9,3). Questa è sempre la conversione più difficile da compiere, per poter accedere a un altro sguardo sulle cose: abbandonare la caccia ai colpevoli, attività noiosa e dolorosa che, non di rado, cela un profondo malcontento verso noi stessi e la nostra storia. A partire dall’amore, che sempre riconosce e accoglie ciò che è piccolo come realtà preziosa, Gesù si mostra capace di riconoscere anche nei limiti dell’esperienza umana vere e proprie occasioni affinché le «opere di Dio» si realizzino. Questa parola era una rivoluzione copernicana duemila anni fa, in una società che era abituata a giudicare la vita in base al criterio della giustizia retributiva: il giusto è benedetto e ricompensato da Dio per la sua condotta, mentre l’empio è maledetto e castigato. Ma lo è anche per la nostra postmoderna società, che si è solo apparentemente liberata da simili modi di interpretare la vita. Anche oggi, chi non corrisponde a certi canoni di bellezza, efficienza o prestigio è considerato marginale oppure, più elegantemente, fatto oggetto di molta retorica ma di poca, concreta carità. Lo sguardo del Signore Gesù sulla penosa condizione dell’uomo cieco fin dalla nascita è invece un’autentica rivelazione per ogni «tenebra» (Ef 5,8) che uccide la nostra speranza. Ci permette «di capire ciò che è gradito al Signore» (5,10): non solo ciò funziona e va bene, ma soprattutto ciò che resta irrisolto e che, con immensa fatica, proviamo a infilare nello zaino quotidiano. Lo sguardo sulla realtà del Signore Gesù ci autorizza a smettere di chiederci chi e che cosa hanno determinato storture e vuoti in noi, per iniziare a porci un’altra domanda, molto più bella e feconda: “Come la mia povera vita può diventare una manifestazione della bontà di Dio?”.

Inviato

C’è infatti una cosa che il Signore — e solo lui — può fare con la nostra umanità irrisolta. Lo racconta il vangelo: «Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: “Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe”, che significa “Inviato”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva» (Gv 9,6-7). Attraverso la sua parola e il dono dello Spirito — ciò di cui vive continuamente la comunità cristiana — il Signore Gesù è capace di trasformare ogni «più piccolo» particolare della nostra storia in un annuncio del suo regno e del suo amore. Questa è la spiegazione migliore, più profonda e convincente del perché tante cose inspiegabili continuano a esserci: affinché, nel loro incontro con la grazia di Cristo, diventino efficace testimonianza che Dio è amore. Le zone d’ombra e i fatti tristi della vita non trovano alcuna motivazione, finché non accettiamo di lavarci nella piscina dell’inviato. Il cieco va, si tuffa nella piscina di Siloe, e scopre quello che prima non conosceva: che egli non era un reietto, ma un inviato. C’è qualcosa di nascosto nei nostri dolori, nei nostri enigmi, nelle nostre solitudini, una realtà che ci viene svelata soltanto quando ascoltiamo la parola di Dio e accogliamo la missione che egli ci affida. Agli occhi di Dio non esiste nessuno che, con la sua vita o con la sua morte, non sia chiamato a diventare annunciatore del suo regno. L’uomo cieco dalla nascita sperimenta una meravigliosa trasformazione che lo rende, in tempi brevissimi, simile a Cristo: contestato e cacciato a causa della verità che la sua vita finalmente proclama: «L’uomo che si chiama Gesù» (9,11) è il «Signore» (9,38). «Siamo ciechi anche noi» fino a quando non vediamo e crediamo il mistero di Cristo che abita noi e la vita del mondo. Fino a quando non diventiamo anche noi «luce nel Signore», portando nel mondo il suo bel frutto, che «consiste in ogni bontà, giustizia e verità» (Ef 5,8). 

Commenti