ACQUA VIVA

III Domenica – Tempo di Quaresima
Dopo una piccola escursione sul monte Tabor, abbagliati dalla bellezza di Cristo e della sua parola di pace, oggi siamo ricondotti nel deserto. L’esperienza di Israele che, durante l’esodo verso la terra promessa, soffre l’arsura del deserto, anticipa quella del Signore Gesù, assetato e «affaticato per il viaggio» (Gv 4,6) nella sua ricerca dell’uomo in esilio da se stesso. Siamo così messi a confronto con la «sete», quel bisogno fondamentale di togliere secchezza e torpore al nostro corpo. E di ristorare l’anima, spesso solitaria e riarsa, sempre impaziente di sorsi d’affetto e di relazione autentica.  

Sete
Tra le esperienze che — per fortuna — non riusciamo e non dobbiamo filtrare, c’è proprio quella della sete che, quando ci assale, arma di forza il fiato della voce. Il popolo di Israele nel deserto, soffrendo «per la mancanza di acqua» si mette a mormorare contro Mosè: «Perché ci hai fatto salire dall’Egitto per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?» (Es 17,3). Con più garbo e fiducia, ma con l’audacia di un imperativo, il Signore Gesù manifesta la stessa necessità alla donna «samaritana» venuta al pozzo per «attingere acqua»: «Dammi da bere» (Gv 4,7). Nel viaggio che siamo chiamati a compiere nel deserto del mondo, capita molte volte di avere una disperata sete. Nella maggior parte dei casi questo bisogno è facilmente soddisfatto. Ma c’è una sete più acuta che si sperimenta a qualsiasi latitudine geografica, che non risparmia nessuno. È la sete di relazione, quella primaria necessità che Dio ha scritto dentro di noi. Non ci accorgiamo sempre e subito di quanto questa sete sia il motore di gesti, parole e decisioni che tracciano il nostro percorso quotidiano. Apparentemente così ben collegati a molte cose, immersi in una fitta trama di relazioni e occasioni, fatichiamo ad ammettere che, c’è una stanza in fondo al cuore, dove non arriva da ormai troppo tempo una goccia di vita autentica. C’è un desiderio inappagato, che rimane come brace sotto la cenere della quotidianità. 

Regali
Gesù intuisce questa sete profonda nella donna, che probabilmente si sta ancora chiedendo quali intenzioni abbia questo sconosciuto giudeo nei suoi confronti: «Coma mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?» (4,9). Mentre la donna prende tempo, il Maestro invece affonda il colpo: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva» (4,10). Aveva cominciato chiedendo aiuto, ora sta già promettendo regali. Davvero un Dio straordinario quello che Gesù ci ha rivelato. Non chiede mai nulla, se non per riempirci le mani di nuovi, inattesi regali. Invece noi ci scocciamo quando bussa alla nostra porta alla ricerca di qualcosa: un aiuto, una collaborazione, un po’ del nostro prezioso tempo. Smemorati cronici, dimentichiamo che quando il Signore fa appello alla nostra disponibilità, in realtà, sta solo prendendo la rincorsa per offrire nuovi orizzonti, più ricche possibilità al nostro cammino. C’è però una cosa che riesce a convincerci: l’insoddisfazione profonda che non riusciamo a scrollarci di dosso, neanche con i migliori sorrisi. Proprio su questo prezioso sintomo fa leva la parola di Gesù: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (4,13-14). All’udire di un’acqua che estingue la sete profonda, la donna è afferrata. Nel volgere di un istante il suo desiderio è trasformato e manifesto: «Signore dammi quest’acqua!» (4,15).

Il vero

Il Signore però ha una reazione strana. Risponde alla domanda della donna con un’ulteriore richiesta: «Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui» (4,16). Non si tratta di un’imbarazzante messa a nudo, nel già delicato e fragile mondo degli affetti. È una proposta di autenticità, perché l’acqua della vita può sgorgare solo dalla verità della nostra storia. Non altrove. Per questo il Signore le chiede di essere vera fino in fondo davanti a lui. Lo fa con amore ed estrema delicatezza. Non per giudicare, ma per ridare dignità e speranza. La donna lo capisce, si sente compresa, amata, creduta come mai prima le era successo. Lascia lì la brocca e corre ad annunciare di aver gustato per la prima volta acqua viva, di aver incontrato il «Messia» (4,25). Quanto è successo alla donna samaritana è il racconto di quello che anche a noi può accadere. L’acqua è uno dei simboli più rappresentativi dello Spirito, capace di operare invisibili trasformazioni al nostro cuore. L’apostolo Paolo dice che lo Spirito è un torrente di speranza entusiasmante, che non ci delude, «perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). Certamente una volta per tutte nel battesimo. Ma quest’acqua — essendo viva — zampilla e (ri)sorge ogni volta che nel deserto della vita gridiamo al «Signore» e sperimentiamo che egli è la roccia che accompagna ogni nostro passo. In modo fedele, discreto, silenzioso. Sempre pronto a restituire sorriso e fiducia. Restiamo aridi e afflitti quando invece rinunciamo a metterci nella verità, fingendo di non avere sete di una vita più grande. La samaritana ha avuto una grande intuizione, la sua vita quel giorno è cambiata. Eppure la sua esperienza è piccola rispetto a quella che noi è dato vivere. Quell’amore di cui lei ha avuto soltanto sentore, è uno spettacolo ancora più evidente ai nostri occhi: risplende sereno nella croce gloriosa di Cristo. In questa immagine, noi possiamo avere la certezza che Dio sta dalla nostra parte, che ci ama con fedeltà. Ne siamo sicuri perché «mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8), non per sentito dire, non perché così altri hanno detto, ma «perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo» (4,42).

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