SPLENDIDAMENTE SAPIDI

V Domenica del Tempo Ordinario – Anno A
In questa domenica il Signore Gesù prende la parola per dichiarare cosa possiamo essere. Sfidando a viso aperto la nostra ingenua coscienza di ciò che crediamo di essere e la spocchiosa autorità del pensiero moderno, che definisce l’uomo attorno a una certa idea di libertà e alla carta — sempre infinita — dei suoi presunti diritti, la parola di Dio annuncia che c’è in noi una misteriosa bellezza chiamata a splendere. Che accontentarci di una piccola misura, di un’esistenza mediocre significherebbe semplicemente rinunciare a noi stessi.

Essere
«Voi siete il sale della terra, voi siete la luce del mondo» (Mt 5,13.14), esordisce così il Maestro. E non si tratta certo di una captatio benevolentiae (ascoltare i vangeli delle prossime domeniche per credere!). Ma nemmeno di un’esortazione morale, che vuole indurre i discepoli ad assumere inconsueti atteggiamenti o artefatte posture dell’anima. Queste parole sono, semplicemente, una rivelazione su ciò che l’uomo è. La forma dell’indicativo — scelta non certo a caso al posto del condizionale o dell’imperativo — non lascia alcun dubbio. Questo modo così limpido di parlarci è il primo ostacolo che noi incontriamo nella comprensione del vangelo: accettare che il significato profondo, cioè autentico, della nostra vita non stia dentro la nostra coscienza, nei progetti o nei desideri che portiamo dentro, ma in una parola che giunge dall’esterno, nel cuore di un Altro che pretende di conoscerci. Per diritto d’amore. Non è facile per noi credere che il senso del nostro esistere sia altro rispetto a ciò che abbiamo visto e sperimentato, che il meglio di noi debba ancora venire. Anzi rivelarsi. Il Signore Gesù sembra invece molto sereno nell’affermare che in noi esiste una qualità di vita che è della stessa pasta di cui è fatto Dio. Che noi, suoi discepoli, siamo il sapore della storia, la luce del mondo.

Divenire
La gioia dell’indicativo si veste però subito di realismo, attraverso il brivido dell’ipotetica: «Ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato?» (5,13), e l’assurdità di futuri possibili: «Non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio» (5,14-15). Dopo averci detto ciò che siamo, il Maestro ci rammenta anche la responsabilità di diventarlo. Se, tuttavia, ci sentiamo più onorati che intimoriti di fronte alla rivelazione del vangelo, vale la pena di chiederci cosa significhi essere — e quindi diventare — oggi la luce del mondo e il sale della terra. Forse ciascuno ha bisogno di calare queste domande nella propria vita, per capire come e quando oggi un discepolo di Gesù possa emanare luce, restituire sapore e spessore alla realtà, quel triste palcoscenico di miseri costumi e tristi passioni, in cui si vive ormai come se una cosa valesse l’altra. Forse si potrebbe cominciare dal coraggio di parlare con più verità in famiglia, nelle comunità di amici o fratelli a cui apparteniamo; di avere maggior sete di giustizia negli ambienti di lavoro, nella polis che tutti o edifichiamo o distruggiamo; di mostrare con i fatti che, prima di chiedere agli altri riconoscimenti o approvazioni, noi cristiani dovremmo anzitutto essere disposti a perdere la nostra vita — e quindi privilegi, poteri, visibilità — pur di annunciare la Vita che abbiamo incontrato. Forse si potrebbe continuare pensando che la mitezza non può essere la forma dei nostri gesti e delle nostre parole solo in alcune, privilegiate situazioni, ma sempre. In chiesa come per strada, al lavoro come in famiglia. Perché Dio è testimoniato in modo credibile non tanto quando di lui si parla bene, ma quando di lui umilmente si vive. 

In relazione 

Il vangelo di oggi infatti si conclude — molto opportunamente — con un fantastico imperativo, che riaccende la nostalgia delle prime pagine della Bibbia (cf. Gen 1,3), quelle in cui si racconta che tutto sta per cominciare: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16). Dopo averci detto che siamo essenzialmente luce e che questo destino è affidato anche alla nostra libertà, il Signore si permette di impartirci un comando, che non vuole certo compiersi in tristi narcisismi, ma nel calore delle relazioni fraterne. Come ricorda il profeta, la nostra luce può sorgere «come l’aurora» (Is 58,8) e brillare «come il meriggio» (58,10) solo se il nostro vivere consiste nel «dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo» e se queste cose le facciamo «senza trascurare i parenti» (Is 58,7). Anzi, proprio aprendoci agli altri nel servizio e nella solidarietà, accade che la nostra ferita — il nostro bisogno di essere amore che sanguina — «si rimarginerò presto» (58,8). Sempre corriamo il rischio che le  parole con cui Dio riesce a intercettare la nostra coscienza diventino lustrini e trofei che tentiamo di esibire «con l’eccellenza della parola o della sapienza» (1Cor 2,1). La bella notizia che siamo splendidamente sapidi merita una risposta migliore, desidera compiersi «nella debolezza» di ordinari atti d’amore, i soli gesti capaci di esprimere la «potenza di Dio» (2,5). 

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