LE PROFONDITÀ DI DIO

VI Domenica del Tempo Ordinario — Anno A
Il Maestro Gesù, seduto sul monte della nuova e definitiva alleanza tra cielo e terra, preme ancora più a fondo l’acceleratore della rivelazione circa il nostro statuto di figli di Dio. Per raccontarci quanto può essere bello, gratificante e desiderabile diventare ciò che, in verità, noi siamo. Ma in ogni liturgia cristiana, ogni buona notizia è preparata dalle parole del Primo Testamento, che con perenne vigore sono capaci di scavare in noi pozzi di sorpresa e di disponibilità, indispensabili condizioni per incontrare la voce del Dio vivente.  

Tesi
«Egli (Dio) ti ha posto davanti fuoco e acqua: là dove vuoi tendi la tua mano. Davanti agli uomini stanno la vita e la morte, il bene e il male: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà» (Sir 15,17-18). La riflessione del Siracide — uno dei grandi sapienti della tradizione ebraica —– ci rammenta una tesi così ovvia da essere continuamente da noi fraintesa o, per lo meno, male interpretata. Dio ci ha creati donandoci una vera e piena libertà. Pertanto tocca a noi, ogni giorno, decidere in che cosa immergerci e per che cosa ardere. Non spetta ad altri scegliere verso chi o cosa tendere la mano. Certo, la nostra libertà conosce molte limitazioni: storiche, sociali, fisiche, morali. Eppure è — e resta — reale, misura irriducibile della nostra dignità dentro lo spettacolo della creazione. La «sapienza del Signore» (15,19) non ci ha però affidato questo compito in modo irresponsabile, ha voluto consegnarci «i suoi comandamenti» (15,16), necessarie linee guida per farci comprendere che il bene e il male non sono due principi opposti. Agli occhi di Dio solo il bene esiste, quindi la vita è una strada a senso unico. «A nessuno ha comandato di essere empio — dice Ben Sira — e a nessuno ha dato il permesso di peccare» (15,21). Dio non ci ha consegnato i comandamenti perché voleva limitare la nostra libertà, ma per indicarci come e dove la vita funziona. Non ci ha tolto la gioia di scoprire da noi stessi i misteri e i tesori nascosti nel campo del mondo e della vita umana. Ci ha semplicemente sottratto quella assurda vertigine che una libertà assoluta può provocare in noi. 

Antitesi
Noi però manifestiamo un’originale peccato di fondo, (di)mostrandoci sempre un po’ allergici quando ci viene detto o consigliato cosa sia meglio fare. Un’inveterata presunzione riposa in noi come polvere, spingendoci a rifiutare, invece che ascoltare, le parole che vengono a noi nella forma dei «precetti», dei «decreti» e degli «insegnamenti» (cf. salmo responsoriale). Una fortissima reazione a tutto ciò che puzzava di legge e di imposizione, per esempio, è stato vissuto dalla nostra società occidentale nel secolo scorso. Un bel sogno animava l’intento: tornare liberi, nuovamente padroni e interpreti dell’avventura di essere uomini e donne. Ma un colossale abbaglio si nasconde sempre nei tentativi di far evolvere la storia sganciandosi troppo radicalmente dal passato. Proprio questo, di fatto, è avvenuto: abbiamo bruciato codici e tradizioni, annullato regole e norme, regalandoci la possibilità di scrivere la storia a partire da una pagina nuova, tutta bianca. Per poi accorgerci che, rinunciando a ogni disciplina vissuta da quanti ci avevano preceduto, si diventava presto incapaci di vivere, analfabeti nell’interpretare i più fondamentali linguaggi della realtà quotidiana: l’amicizia, l’amore, il rapporto con le cose, il lavoro, i soldi, la gestione dei desideri e del nostro cuore. Anche noi cristiani abbiamo operato lo stesso errore nei confronti del vangelo, fraintendendo ciò che proprio questa domenica risuona nella voce del Signore Gesù: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento» (Mt 5,17). La notizia bella del vangelo non è un annuncio di abolizione, ma di compimento. Il vangelo che proclama la libertà dei figli di Dio non è l’autorizzazione a mettere tra parentesi quella parte di noi che, prima di poter agire spontaneamente, ha bisogno di imparare a distinguere la luce dalle tenebre, l’acqua dal fuoco, l’amore dall’egoismo. Abbiamo anche noi ceduto all’illusione di una libertà senza regole, di una sostanza che potesse prescindere dalle forme, di una tensione all’amore che potesse fare a meno della fedeltà alle responsabilità quotidiane. 

Sintesi
Il lungo e articolato vangelo di questa domenica è infatti entrato nella letteratura (e nella predicazione) cristiana con il nome di “antitesi matteane”. Il motivo è dovuto all’insistente uso della congiunzione avversativa «ma», che spesso suscita in noi — sempre così profondamente bellici — sentimenti di contrapposizione. «Avete inteso che fu detto... ma io vi dico...» — il ritornello che scandisce tutto il vangelo — è facilmente interpretabile come una brusca inversione, una radicale rettifica. Tuttavia, un «ma» non serve necessariamente per contrapporre: è utilissimo per approfondire un discorso, come si capisce leggendo con attenzione le istruzioni del Maestro Gesù. Dicendoci che persino adirarsi è uccidere, che fare il primo passo è perdonare, che basta uno sguardo per essere infedeli il Signore non ha voluto insegnare un’altra Legge. Ha voluto dirci che è giunto il tempo in cui possiamo vivere le esigenze della Legge di Dio fino in fondo, fino a scoprire in quali «profondità» (1Cor 2,10) di bellezza e di verità la nostra vita si può giocare. Non perché siamo più buoni o migliori di coloro che ci hanno preceduto, ma perché abbiamo ricevuto lo Spirito Santo, che sana il nostro peccato e irrobustisce il cuore per una vita eterna. 


Sì, alzava il tiro quel giorno il Signore Gesù, dichiarando tutta la nostra libertà. La stessa cosa fa ancora oggi, dicendoci che non dobbiamo più aspettare un’altra occasione per abbracciare quella giustizia profonda che il nostro cuore desidera. Non dobbiamo attendere domani per entrare «nel regno dei cieli» (5,20), possiamo farlo qui, ora. Basta pronunciare sereni e asciutti le parole dell’assenso. Basta dire «sì, sì» (5,37).   

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