ECCO!

II Domenica del Tempo Ordinario – Anno A
Prima di cedere il posto e la parola all’evangelista Matteo — il cui vangelo sfoglieremo a partire dalla prossima domenica — la liturgia ci offre un ultimo incontro con Giovanni Battista, il grande profeta che ci ha guidato nel cammino di Avvento. Il vangelo di questa domenica ruota tutto intorno a un’esclamazione che egli pronuncia «vedendo Gesù venire verso di lui» (Gv 1,29). Queste parole, che ripetiamo nel cuore di ogni celebrazione eucaristica, possono accompagnare il nostro ingresso nel nuovo anno liturgico, regalandoci uno sguardo semplice e profondo sulla realtà di Cristo: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!» (1,29).     

Vedere
«Ecco»: non è affatto banale la prima parola esclamata dal Battista, questo minuscolo avverbio che usiamo così spesso nella vita di tutti i giorni. In greco la sua etimologia è legata al verbo «vedere». Non si tratta dunque di un modo qualunque per attirare l’attenzione su quanto si sta per dire, ma quasi di un imperativo che nasce dallo stupore e invita alla partecipazione. «Guardate, vedete» ripete Giovanni Battista a ciascuno di noi in questa domenica. Il lungo tempo trascorso nel deserto, dove Giovanni si è dedicato a un ascolto profondo e assiduo delle Scritture, ha forgiato il suo cuore fino a renderlo perfettamente sensibile al passaggio di Dio. Nel quarto vangelo l’ingresso sulla scena di Gesù è molto discreto. Dopo il solenne prologo — dove tutto viene detto ma nulla è narrato — nessuno si accorge che la «gloria» (Is 49,3) di Dio dimora nell’umanità di Gesù fino al «segno» (Gv 2,11) di Cana, dove l’obbedienza alla parola di Gesù fa tornare vino e gioia al banchetto nuziale. Gesù entra nel mondo e si presenta come una persona qualunque. Il Battista è il primo uomo a contemplare in lui la presenza dello «Spirito Santo» (1,33) e a confessarlo «Figlio di Dio» (1,34). Il suo premuroso imperativo si potrebbe allora tramutare in un interrogativo: «Guardate! (Lo) vedete?». La presenza di Dio dentro la storia è infatti mite, discreta. Solo cuori purificati la possono cogliere. Solo il cuore che la desidera sa riconoscerla. Il Signore Gesù non si impone mai ai nostri occhi, ma continuamente si propone e si avvicina. Lo fa mescolandosi al gregge degli uomini, senza proclamarsi subito «pastore buono» (10,14), ma rivelandosi anzitutto come agnello tenero, come «servo» (Is 49,3) del Signore, «mite e umile di cuore» (Mt 11,29).

Togliere
Ma perché, potremmo chiederci, è necessaria tutta questa mitezza, in un mondo sempre più palesemente bisognoso di una salvezza e di un Salvatore? Perché la sua è una missione straordinariamente delicata. Dice Giovanni che egli è «colui che toglie il peccato del mondo». La traduzione italiana coglie più l’assonanza con la celebre formula latina — Agnus Dei qui tollis peccata mundi — che non la sostanza del verbo greco (airein, «sollevare», «prendere»). Il compito dell’agnello non è tanto quello di togliere il peccato, ma di prenderlo su di sé, di sollevarlo con la sua forza per evitare che il mondo soccomba sotto il suo insopportabile peso. Togliere è spesso l’illusione con cui ci rapportiamo al male e alla sofferenza, ingenuamente persuasi che esista la possibilità di rimuovere le scorie della vita, magari lavorando un po’ su noi stessi e sulla nostra capacità di accettazione. Sollevare e prendere sono i verbi dell’amore, i gesti di chi non si chiede più “perché” e “per come”, ma agisce a partire da un cuore in grado di compatire e, quindi, di condividere. I gesti di Dio, appunto. 

Santificare

Noi siamo disposti ad accettarci così come siamo solo fino a un certo punto. Resta sempre un residuo scomodo e maleodorante, un segmento oscuro del nostro esistere con cui siamo in eterno conflitto. È il nostro peccato, la nostra distanza dalla verità, dal bene, dal bello che il Signore ha seminato nella nostra terra e, purtroppo, ancora non porta frutto. Anzi, esibisce frutti marci, che noi stessi siamo i primi a scartare. Il vangelo ci annuncia che esiste qualcuno che questo brutto fagotto è disposto a prenderselo. Uno che è intenzionato a sollevarci dai pesi non tollerabili e a mettere sulle sue spalle la vergogna che ci portiamo addosso. Uno che non è dalla nostra parte a giorni alterni, ma sempre, perché lo Spirito — l’Amore — è stabilmente il suo principio di azione. Giovanni lo testimonia con forza: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui» (Gv 1,32). Dal fatto che l’agnello di Dio assuma seriamente e concretamente la nostra vita nasce una meravigliosa conseguenza: mentre egli sta con noi e diventa come noi, noi pure diventiamo come lui. La teologia cristiana chiama questo processo “santificazione”. L’apostolo Paolo, con audacia ed esuberanza, lo aveva subito intuito, definendo i membri della «Chiesa di Dio» come «coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata, insieme a tutti» (1Cor 1,2). La santità infatti non consiste in un cammino esente dagli errori e dai fallimenti, ma nella disponibilità ad accogliere giorno per giorno la guida e la compagnia di qualcuno che può realmente portare tutto il «peccato del mondo», perché questo mondo lo ha creato e tanto lo ama: Gesù Cristo, il Figlio di Dio.

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