ROBA DA DIO

Natale del Signore
L’attesa è finita: pronti o indaffarati, sereni o ansiosi, felici o tristi, è Natale. Ancora una volta. Il tempo dell’Avvento ci ha regalato l’occasione di incamminarci — così come siamo — verso il mistero dell’Incarnazione. La voce dei profeti, la testimonianza di Giovanni Battista, il sogno di Giuseppe, il coraggio di Maria hanno hanno tracciato una strada per farci arrivare pieni di desiderio davanti alla follia d’amore di un Dio fatto uomo. Il dono del Natale, piccolo e immenso, ora sta davanti ai nostri occhi, per essere contemplato, creduto, accolto. 

In crisi
La prima lettura della liturgia ci fa ascoltare un oracolo di Isaia che si colloca al tempo dell’esilio in Babilonia. Si tratta di un momento drammatico per Israele che, in due battute, si è vista sottrarre il dono della terra. Prima per opera degli Assiri che hanno invaso il regno del nord, poi dei Babilonesi che sono riusciti a conquistare il regno del sud, mettendo a ferro e fuoco la città santa. Questa doppia sconfitta mette a dura prova la fede del popolo di Dio, costringendolo a scavare a fondo per trovare semi di speranza per il futuro. Forse anche la crisi che noi stiamo attraversando può essere l’occasione per ritrovare una speranza in grado di ridarci fiducia nel domani. Prima però dobbiamo riconoscere che per molti, troppi, anni il Natale si era ridotto, nei nostri costumi, a una festa vuota e melense, quasi la ciliegina sopra una torta fatta — diciamolo pure — soprattutto con le nostre mani. È andata così nel dopo guerra. Ci siamo rialzati, abbiamo ricostruito il Paese, ci siamo avventurati nella più grande trasformazione sociale ed economica che la storia abbia conosciuto, senza accorgerci però che la fede nel Dio di Gesù Cristo stava passando dal centro alla periferia delle nostre preoccupazioni. Pensavamo di essere un treno in corsa, invincibile, inarrestabile, lanciato verso meravigliose destinazioni. Era un’illusione. Come altre generazioni prima di noi, non ci siamo accorti che stavamo idolatrando alcune cose belle e importanti che la storia consegnava alle nostre mani — sviluppo tecnologico, benessere, potere, libertà — e, quindi, stavamo preparando il nostro esilio. Che, sfortunatamente e puntualmente, è giunto! Ma proprio qui, in questa distanza da ottimismo e serenità, è più facile che ci raggiunga oggi l’annuncio del Natale, il grido che la crisi finirà presto: «Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme» (Is 52,9).

Nella storia
Già, ma come, perché gioire mentre i conti ancora non tornano? La storia la conosciamo bene, eppure ogni anno dobbiamo ricordarla, raccontarla, ascoltarla con il cuore e con l’intelligenza della fede. In un giorno qualsiasi della storia umana, in una notte come tante altre, Dio ha cominciato a consolare per sempre questo nostro mondo facendosi uomo: «Il Verbo di Dio si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Tra l’attesa di pochi e l’indifferenza dei più, Dio è entrato nella storia, l’eterno ha scelto di abitare il tempo, Dio è diventato uno di noi. È un mistero che fa trasalire di gioia e, al contempo, toglie il fiato: quel Dio che nemmeno «i cieli possono contenere» (santa Chiara) ha deciso di porre la sua tenda in mezzo alle nostre, per condividere in tutto e per tutto la nostra condizione umana. Questo fatto storico è soprattutto una parola con cui l’invisibile Dio ha voluto dichiararci  definitivamente il suo volto e il suo amore per noi: «Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo» (Eb 1,1-2). Se Dio è con noi e come noi, allora siamo costretti a chiederci cosa è la nostra umanità, per quale destino siamo creati e posti in questo mondo. Che senso ha la nostra storia, dopo che la storia di Dio si è per sempre intrecciata con la nostra. 

Nelle tenebre
Il solenne prologo di Giovanni, utilizzando un linguaggio metaforico per narrare il mistero del Verbo fatto uomo, ci regala un’immagine potente: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta» (Gv 1,4-5). Scegliendo di farsi bambino prima che uomo, «il Figlio Unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre» (1,18) ci ha rivelato che essere uomini e donne — ed esserlo fino in fondo — non è una piccola avventura, ma è roba da Dio. Per questo è venuto a condividere in tutto e per tutto la nostra condizione umana, per dichiararci quanta gloria e bellezza può e deve risplendere nella nostra fragile e povera esistenza. Questa rivelazione non ha però assunto la forma di un sole abbagliante, ma la forza mite e invincibile di infante, di uno che — letteralmente — non può parlare. La Parola di Dio è venuta ad abitare in mezzo a noi come una piccola candela che pone fine alle tenebre essendoci e illuminando. Questo è il «segno» del Natale. È questa la straordinaria forza della luce vera, «quella che illumina ogni uomo» (1,9). Un bagliore mite, sereno, stabile che vince a causa della bellezza che irradia. Come un fiore posto in campo, un cielo terso srotolato sopra un prato, un tramonto che incanta lo sguardo e intenerisce il cuore. Come un bimbo che, pur non parlando, esercita la forza più sovversiva che esista al mondo: la capacità di suscitare in chi lo circonda gli istinti e i progetti migliori. 


Buon Natale, allora! Se avremo la pazienza di volgere lo sguardo al segno povero e umile di Betlemme, forse potremo cominciare a credere che dalla crisi, in un certo senso, siamo già fuori. È vero che dobbiamo rimboccarci le maniche, imparare a vivere più sobriamente, costruire città e società che non puntino a portare tutti in alto, ma sappiano partire dal basso, dove si pratica la condivisione e la solidarietà con gli ultimi. Ma non è vero che dobbiamo temere il futuro. Il domani sarà soprattutto un tempo di grazia, perché ci darà l’opportunità che rischiavamo di perdere: usare l’umanità che ci è donata per amare e servire, per diventare luce. Di mangiatoie vuote — dove diventare pane che si offre — ce ne sono e ne restano a volontà. Basta riconoscere quella preparata per noi e distendersi su di essa. Con semplicità e confidenza. Senza paura, come bambini appena nati.

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