ATTENDERE ALTRO

III Domenica di Avvento – Anno A
Oltrepassata la metà del suo breve percorso, l’Avvento comincia a scoprire le carte, svelando quei paradossi che servono al nostro cuore e alla nostra intelligenza per disporci a celebrare nella fede il Natale del Signore. Quel Dio invocato come indispensabile fuoco, dissetante acqua, implacabile giudizio, viene davvero. Ma lo fa in una forma assai diversa da come l’uomo — di ieri e di oggi — è incline a pensare. La sua grandezza è un mistero di debolezza che chiede accoglienza nei deliri di potenza e efficienza, nei ritmi accelerati e superficiali della nostra meravigliosa, assurda società moderna. 
 
Crisi
Giovanni, ormai prigioniero della codarda aggressività di un re pupazzo (Erode), «avendo sentito parlare delle opere del Cristo» (11,2), manda a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (11,3). La voce possente e sicura del più grande «profeta» mai esistito si fa esile interrogativo. Il Battista, ormai prossimo a testimoniare la venuta del Signore con la morte, non ha più certezze da esibire, ma domande da porre, a colui che si sta rivelando difforme da come egli lo immaginava. Noi discepoli di ogni tempo non finiremo mai di ringraziare Giovanni per queste sofferte parole, per esserci maestro e guida nel delicatissimo momento della crisi. Arriva per tutti l’ora in cui di quelle sicurezze accumulate — talora faticosamente — nel corso della vita non rimane più nulla, se non l’eco di temibili domande: “Ma non mi sarò forse sbagliato? Sarà vero tutto ciò che ho professato e vissuto finora? Dio sarà proprio così come pensavo o mi è stato detto?”. Gesù si è rivelato un Messia molto diverso da come il Battista lo aveva dipinto e annunciato. Questo scarto tra attesa e realtà fa esplodere l’angoscia nel cuore del profeta e lo rilancia dentro un nuovo, definitivo cammino di ricerca. Così accade — così deve accadere — a ogni essere umano che si avventura seriamente nella ricerca del volto di Dio. La crisi di ogni aspettativa e di ogni certezza acquisita segna la fine di un certo modo di relazionarsi al Dio invisibile, al contempo rappresenta l’inizio di una nuova possibilità di credere e sperare nella sua parola. 

Diversità
Il Signore Gesù conforta il dubbio del cugino, dichiarando che le speranze profetiche (cf. Is 35,5-10) si stanno ormai compiendo: «I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo» (Mt 11,4-5). Ma, tutto ciò che era stato scritto e annunciato si realizza in una forma inattesa, attraverso categorie che nessuno poteva immaginare. Dio viene a giudicare la terra e la sua punizione si chiama misericordia, la sua scure appoggiata alla nostra radice è compassione, la sua ira ardente solidarietà. Il Dio terribile e temibile, atteso per far piazza pulita del male e dei malfattori, si rivela «lento all’ira» (Es 34,6) e premuroso nei confronti di chi sbaglia e fallisce il suo itinerario umano. Il giudice severo della storia non si manifesta seduto su un alto trono, ma, nella carne del Figlio dell’uomo, si presenta sdraiato a mensa con i peccatori e gli «smarriti di cuore» (Is 35,4). Attorno a lui la vita inceppata rifiorisce, «le mani fiacche» tornano capaci di operare, «le ginocchia vacillanti» (35,3) possono riprendere la marcia nei sentieri della vita. Questi piccoli, grandi miracoli, ancora accadono silenziosamente nella vita di quanti scoprono la tenerezza del Padre. Senza soluzione di continuità, la storia umana conosce il sorriso di uomini e donne che, incontrando il volto e la parola di Cristo, ritornano a vivere, dopo aver gustato le tenebre del peccato, l’amarezza del tradimento e della solitudine, la tristezza di una esistenza piena di cose, ma vuota di senso e di relazioni autentiche. Eppure in noi resta la preferenza per un Dio forte, che venga a giudicare e a ristabilire le cose in fretta e con potenza. Proprio a noi è indirizzata la beatitudine promessa da Gesù: «E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!» (11,6). 

Piccolezza
Forse la nostra voglia di una rapida e vigorosa salvezza ha un corrispettivo nella nostra incapacità — oggi più che mai cronica — di saper attendere «con costanza» come fa «l’agricoltore» (Gc 5,7), che è immagine di chi sa vivere con fiducia nella bontà della terra e nella provvidenza del cielo. Non riusciamo più a credere in quella potenza che giace — imperturbabile — in ogni «più piccolo» particolare della nostra realtà, chiamata da Dio a diventare «regno dei cieli» (Mt 11,11). La misteriosa conclusione del vangelo vuole orientare il nostro sguardo proprio là dove non siamo più abituati a guardare: «In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui» (11,11). Certamente con queste parole Gesù vuole dire che, per quanto lo si possa immaginare, il regno di Dio è totalmente altro dalle nostre aspettative. Ma, opponendo il maggiore e il minore, il Maestro vuole indicare anche la sorpresa di una logica povera e umile che contraddistingue il modo di vivere e di essere di Dio. Questo infatti è il paradosso del Natale, in cui celebriamo la venuta dell’onnipotenza divina nel gracile corpo di un piccolo bambino. Questa terza domenica di Avvento si chiama Gaudete, perché vuole provocare i nostri cuori a esultare per la venuta del Signore. Saremo però felici solo nella misura in cui sapremo convertire le nostre attese in disponibilità ad accettare la forma povera e debole con cui il Signore continua a venire e a rimanere in mezzo a noi. Una volta accolto il mistero del Dio fatto carne non è più necessario attendere ancora un segno, un’ulteriore conferma, un altro vangelo. Occorre solo attendere altro da ciò che stiamo già aspettando, «il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge» (Gc 5,7).

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