NEMMENO UN CAPELLO

XXXIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C
Le scritture scelte per quest’ultima domenica del tempo ordinario, prima della solennità di Cristo re, sembrano incutere un certo timore, così pervase da un linguaggio apocalittico e da toni allarmanti. Del resto dovremmo anche essere abituati a sentir parlare di «fatti terrificanti» (Lc 21,10), «guerre e rivoluzioni» (21,9), «terremoti, carestie e pestilenze» (21,11), vista la diffusa abitudine di mostrare sulle prime pagine lo spettacolo del male, nel tentativo di esorcizzarlo attraverso una frequente e rassegnata ostensione. Diversa appare la rappresentazione che la parola di Dio compie, non finalizzata solo a esibire ciò che fa paura al cuore dell’uomo, ma anche a leggervi dentro una parola di speranza e un appello lanciato verso la nostra libertà. 

Sembra
Un giorno, mentre alcune persone erano incantate dalle «belle pietre» (Lc 21,5) del tempio, il Maestro, ormai prossimo alla sua passione, trae spunto per iniziare un’ultima, indispensabile catechesi: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta» (21,6). A dispetto della nostra abitudine a guardare con pessimismo le cose, questa volta è proprio il Maestro a volgere il nostro sguardo verso le scomode sorprese che il futuro ci riserverà: fatti terribili nel mondo (terremoti, carestie, crisi economiche, guerre e rivoluzioni) e nel cerchio dei rapporti più cari (odio da fratelli, parenti e amici). Soprattutto un lucidissimo monito verso il pericolo estremo: «E uccideranno alcuni di voi» (21,16). La voce del Signore si fa simile a quella dei profeti, per esempio Malachia che annunciava «il giorno rovente come un forno», il tempo in cui il «Signore degli eserciti» viene a ricreare ogni cosa, strappando ogni «radice» e ogni «germoglio» di «ingiustizia» (Ml 3,19). Forse è utile che, ogni tanto, il nostro sguardo si posi — seriamente e serenamente — su queste cose. Molte volte lo facciamo superficialmente, non mettendo a fuoco il fatto che molte delle cose che vediamo o leggiamo non sono poi così distanti da quanto sta per avvenire anche nella nostra vita: malattia, solitudine, abbandono, dolore, tristezza e morte. Ma l’intenzione che anima la predicazione del profeta Malachia e del Signore Gesù non è quella di incutere paura nei confronti di un Dio che ha nel cuore «progetti di pace e non di sventura» (cf. antifona d’ingresso). Vogliono condurre il nostro sguardo oltre le cose che ci spaventano, dentro il loro significato profondo. 

Eppure
Accomuna la prima lettura e il vangelo una sorpresa, nascosta tra le righe: la notizia buona che, quando la vita salta per aria, «non è subito la fine» (Lc 21,9). In alcune, circoscritte, occasioni ne abbiamo fatto esperienza con le nostre forze. Tutto ci sembrava finito: un’occasione sprecata, un rapporto bruciato, un’improvviso cambiamento della nostra salute. E invece la vita è rimasta, più grande e generosa di quanto potevamo immaginare. Ma in altre situazioni le nostre forze di certo non bastano a ridare il sorriso al volto e la pace al cuore. La vita resta irrimediabilmente dura, difficile, pesante da accogliere. Ebbene, proprio quando la vita è — e resta — così, la parola di Dio annunzia che, in realtà, inizia un tempo di massima opportunità per noi, un’ora in cui «il sole di giustizia» sorge «con raggi benefici» (Ml 3,20) e, ogni discepolo di Cristo, ha «occasione di dare testimonianza» (Lc 21,13) al vangelo. Non malgrado le tribolazioni, ma attraverso la loro stritolante presenza. C’è però una tentazione immediata da affrontare e sconfiggere: correre dietro ai falsi profeti e alle soluzioni facili. Lucidissimo l’avvertimento del Maestro: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e : “Il tempo è vicino”. Non andate dietro loro» (Lc 21,8). Sempre, in tempi difficili e di sventure, c’è qualcuno pronto a offrirci una bella scorciatoia, un corso di apprendimento senza sforzo per perdere i chili superflui e illuderci con qualche improvvisato tarocco. Non facciamoci illusioni: ogni cosa, anche nella fede, esige lavoro e dedizione.   

Perseverare
Rivolgendosi a una comunità in cui serpeggiava una certa agitazione per il futuro, Paolo ricorda «questa regola» (2Ts 3,10) che dice qualcosa di importante agli uomini di ogni tempo: «Chi non vuole lavorare, neppure mangi». Soprattutto nei momenti di turbamento, corriamo il rischio di staccarci da questo primo livello di equilibrio, in cui a ciascuno è chiesto di «guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità» (3,12). Molte volte, quando la paura nei confronti dell’avvenire e dell’ignoto domina il nostro cuore, cediamo all’inganno di «una vita disordinata» (3,11), iniziando a essere «oziosi» (3,7), «senza fare nulla» di importante «e sempre in agitazione» (3,11). Cediamo compulsivamente agli istinti che ci spingono ad andare fare shopping o dal parrucchiere anche se non ne abbiamo bisogno, ad accendere la televisione quando potremmo leggere o dedicare del tempo alla preghiera, a non investire più tanto nelle relazioni reali, perché quelle virtuali sono più comode e indolori. La terapia d’urto è invece rimanere lucidi e operosi, serenamente indaffarati a compiere gli atti di giustizia e di bontà che il Signore ci concede di fare. Se rimaniamo in questo atteggiamento di fiducia, scopriamo la verità delle parole del Signore Gesù. Che quando la vita sembra finire, in realtà inizia un’avventura più grande: il tempo di fare della nostra vita un grande capolavoro di amore e di servizio al prossimo. Allora ogni cosa può trasformarsi in una vera e propria occasione. Un terremoto può essere un’opportunità di carità, un’offesa l’occasione di perdonare, una malattia lo sprone a prendere finalmente decisioni adulte e definitive. La promessa del Signore è chiarissima e il nostro cuore ne avverte tutta le bellezza: «Nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete (lett. “avrete”) la vostra vita». Tutto ci può essere tolto, anzi tutto ci verrà presto tolto, ma una cosa non può esserci strappata: l’amore che Dio ha per noi. Il bene che egli nutre nei nostri confronti. La nostra vita, in fondo, è già salva, perché è un regalo di Dio, il quale è morto e risuscitato per noi. Ma la vita ha bisogno anche di divenire «nostra», nella misura in cui perseveriamo nell’arte e nella pazienza di usare bene la nostra umanità. 

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