DAL BASSO ALL'ALTO

XXXI Domenica del Tempo Ordinario – Anno C
Il presagio acceso dalla liturgia della settimana scorsa — che la realtà sia continuamente alla vigilia di un grande cambiamento, dove i primi diventano gli ultimi e gli ultimi i primi — in questa domenica diventa storia e narrazione. L’incontro tra il Maestro Gesù è il pubblicano Zaccheo ci porta nel cuore dell’evangelo, indicandoci come la «salvezza» (Lc 19,9) di Dio sia capace di dimorare nella «casa» (19,7) del peccatore, trasformando la sua vita in un percorso nuovo, ricco di solidarietà verso gli altri e «pieno di gioia» (19,6). 

Arrampicarsi
Zaccheo era, da un certo punto di vista, la persona meno qualificata per incontrare quel Messia che, un giorno, «entrò nella città di Gerico e la stava attraversando» (19,1). Era «capo dei pubblicani e ricco» (19,2), aveva passato tutta la vita a riscuotere tasse dai suoi connazionali per conto del governo romano, arrotondando lo stipendio con tariffe maggiorate a proprio vantaggio. «Era piccolo di statura» (19,3), una persona costretta a convivere con un doloroso e inguaribile disagio: la necessità di dover guardare gli altri sempre dal basso in alto. Forse anche per questo aveva fatto dei suoi giorni una continua scalata verso la ricchezza e il potere: per raggiungere una posizione da cui guardare finalmente tutto e tutti dall’alto in basso. Quanto è familiare a tutti questo illusorio movimento in «avanti» (19,4), con il quale rimediamo una pedana sopraelevata per la nostra (sempre) piccola statura! Quanti sforzi, sacrifici, compromessi siamo tutti capaci di fare pur di ottenere un posto dove essere lontani dall’insicurezza del vivere e poter essere guardati con ammirazione e stima. Eppure, questa diffusa arrampicata non sembra conoscere epilogo, non ci basta mai. Anche Zaccheo aveva provato a costruirsi una salvezza con le sue mani, ma quando sente che Gesù sta passando per le strada dove egli si è affannato per una vita intera, ecco che ricomincia ad arrampicarsi, mettendo da parte vergogna e pudore: «Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là» (19,4). Talvolta l’incontro con Dio è propiziato non dal limpido desiderio di conoscerlo, ma dalla nausea e dalla desolazione che ci portiamo dentro dopo aver provato in tutti i modi a farcela da soli. Spesso è proprio alla fine del nostro vivere in modo autoreferenziale che ci attende l’incontro col volto di Dio. 

Incontrare
«Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: ‘Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua’» (19,5). Zaccheo non fa in tempo a dire e a fare nulla. Il Signore Gesù lo anticipa e lo sorprende, con uno sguardo disarmante e una parola colma di accoglienza che lo fa cadere dall’albero: «Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia» (19,6). Gesù lo guarda non dall’alto — come Zaccheo ha sempre cercato di vedere gli altri — ma dal basso. L’amore infatti è umile e discreto, non si impone mai; delicatamente sempre si propone, facendo sentire l’altro superiore a se stesso. Zaccheo, forse per la prima volta, incontra due occhi che si posano su di lui senza giudizio e senza rabbia, la sua piccola persona è finalmente chiamata per nome da qualcuno. La sua arrampicata verso l’alto non è più necessaria. Anzi, è necessario mollare tutto — rami e ricchezze — e inaugurare una nuova vita, dove gli altri non sono più avversari su cui innalzarsi, ma fratelli con cui condividere: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto» (19,8). Sentendosi accolto da Gesù, Zaccheo diventa a sua volta capace di accoglienza. Non sentendosi condannato, il peccatore pubblico cambia vita. Ha trovato quello che non sapeva di cercare: la sua dignità, la sua grandezza. Tutto questo avviene «in fretta» e in «gioia», segni inconfondibili di tutti quei momenti che segnano e cambiano la vita all’uomo. 

Dovere

Tutti — proprio tutti — gli altri presenti alla scena non sorridono affatto, e mormorano: «È entrato in casa di un peccatore» (19,7). I loro occhi vedono in Zaccheo solo un imbroglione e un egoista, nient’altro. Non sanno che Dio ha «compassione di tutti» e chiude «gli occhi sui peccati degli uomini» (Sap 11,23). Si dimenticano che Dio non prova mai «disgusto» (11,24), ma è sempre «indulgente» verso ogni sua creatura perché — come dice il Sapiente — «tutte le cose sono tue, Signore, amante della vita» (11,26). Per questo «il Figlio dell’uomo» non ha desiderio più grande che quello di «cercare e salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10). Egli non vede in noi la somma dei nostri errori, ma il quadro delle nostre potenzialità, «ogni proposito di bene» (2Ts 1,11) che il nostro cuore è in grado di ospitare e realizzare. Gesù non fa fatica a invitarsi a cena a casa di Zaccheo, non si sente obbligato ad attendere il suo pentimento, desidera piuttosto suscitarlo. Com’è diverso il nostro modo di perdonarci, con quei mezzi sorrisi e i denti stretti, che continuano a fissare l’occhio sui limiti e gli errori. Splendido invece è l’occhio di Dio che si concentra soltanto sul capolavoro che, domani, la nostra vita saprà essere con il suo amore. La «salvezza» di Dio entrò così un giorno nella vita di un pubblicano: partendo dal basso, con occhi di misericordia e parole di comunione. Ancora, sempre in questo modo la «tenerezza» dell’Altissimo «si espande su tutte le creature», per sostenere «quelli che vacillano» e rialzare «chiunque è caduto» (salmo responsoriale). A noi resta da decidere, se rimanere abbracciati strenuamente all’albero di turno, oppure abbandonarci all’accoglienza umile e festosa di un Dio che ci sorride prima di ogni nostra parola. Per poi cadere, finalmente, tra le sue braccia. 

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