STRANIERI

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

La fede — si diceva domenica scorsa — non necessita larghe misure. Quando è piccola e viva assolve pienamente alla sua missione, abilitandoci ad accogliere la nostra storia come un servizio di amore a cui Dio ci chiama continuamente. La fede è un’inutile necessità, perché non fornisce alcun diritto, ma richiama al dovere di rimanere fino in fondo fedeli a se stessi; quindi anche al Dio che ci ha creato. Ma come si esprime questa fede? La risposta arrivano dalle Scritture scelte per la liturgia di questa domenica.

Purificati
Nel suo «cammino verso Gerusalemme Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea» (Lc 17,11), terre vicine ma distanti, l’una simbolo di contaminazione con altre etnie e altri dèi, l’altra invece simbolo di fedeltà con i padri e la loro discendenza. Entrato «in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza» (17,12), poiché la loro malattia impediva qualsiasi contatto con gli altri. I lebbrosi erano estranei alla vita sociale, stranieri all’incontro con l’altro, persone confinate in una angosciosa solitudine. Restava loro un unico, insindacabile diritto. Quello di gridare tutta la disperazione dell’anima: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!» (17,13). Non appena l’occhio del Signore li incrocia — perché talvolta è necessario ascoltare l’altro con gli occhi — il suo cuore si muove a compassione per loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti» (17,14). Il sacerdote infatti era l’autorità pubblica che poteva certificare l’avvenuta guarigione di un lebbroso, legittimando il suo ritorno in seno alla comunità. Ma la cosa strana è che Gesù non li manda dopo averli guariti, li fa partire come lebbrosi «e mentre essi andavano, furono purificati» (17,14). I lebbrosi obbediscono a un comando apparentemente illogico e assurdo, come aveva fatto a suo tempo «Naaman, il comandante dell’esercito di Aram» che si era immerso «nel Giordano sette volte, secondo la parola di Elisèo, uomo di Dio» e il suo corpo lebbroso era diventato «come il corpo di un ragazzo; egli era purificato» (2Re 5,14).

Guariti
Ciascuno di noi nella vita fa esperienza di momenti di “purificazione”, istanti nei quali il corpo o la mente si rigenerano, tornando a vivere quella serenità che era stata perduta. Tuttavia è possibile sperimentare grandi guarigioni senza che a ciò corrisponda anche una risanamento interiore, una guarigione del cuore. «Uno» dei dieci lebbrosi — uno soltanto — «vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo» (Lc 17,15-16). «Era un Samaritano» (17,16), annota l’evangelista, cioè uno straniero. Essere purificati non significa necessariamente essere anche guariti. Possiamo avere infatti un corpo sano, affrancato dalle malattie, e conservare un cuore triste, rassegnato, soprattutto ingrato. Il samaritano si ferma e torna indietro a ringraziare il Maestro perché si accorge di essere stato oggetto di un regalo, giunge alla coscienza che qualcuno gli ha voluto veramente bene. E allora si ferma, liberando quella splendida capacità che teniamo spesso «incatenata»  (2Tm 2,9) dentro i recinti dell’egoismo e dell’indifferenza: la gratitudine. Essere purificati significa non aver bisogno di andare dal medico. Essere guariti significa aver voglia di dire grazie, perché consapevoli di aver ricevuto tanto, senza alcun merito.
Salvati
Ed è proprio attraverso il ringraziamento che la fede si esprime volentieri e noi giungiamo a un livello di vita profondo e bello. Come Gesù stesso attesta al samaritano tornato indietro: «Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato» (17,19). N è Dio a salvarci, ma la nostra fede nel suo amore. La salvezza è molto più grande della salute. Essere salvi non vuol dire essere lontani dai pericoli e dalla morte, ma vicini al bello, al bene, al vero. Davanti a quest’unico lebbroso tornato indietro, il Maestro ci interroga: «Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?» (17,18). Perché proprio uno straniero è capace di fare ciò che tutti dovremmo fare? Perché lo straniero è un povero, che vive tutto come qualcosa che non gli è dovuto, ma donato. Lo straniero capisce che è regalo ciò che giunge nelle sue mani. Nella società degli sprechi e dei diritti, talvolta anche noi cristiani dimentichiamo che le cose ci sono continuamente donate dal Padre e che siamo chiamati a condividerle con gli altri, nostri fratelli. Molta della nostra tristezza nasce dal fatto che viviamo spesso da «infedeli» (2Tm 2,13) come se le cose ci fossero dovute, a ogni costo e a qualsiasi condizione. E allora smettiamo di rendere grazie, di levare gli occhi al cielo con riconoscenza. Per fortuna la vita non smette mai di farci tornare stranieri. Con puntualità, la provvidenza di Dio ci ricorda che siamo tutti stranieri in questo mondo, e nulla in fondo ci appartiene. Ritroviamo la coscienza di essere pellegrini, viandanti poveri sopra un fazzoletto di terra, in cammino verso una «gloria eterna» (2,10) a causa di un «vangelo» (2,8) ascoltato, creduto, custodito nel cuore: «Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso» (2,12-13). 

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