NON NECESSARI

XXVII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

All’indomani della storica visita di papa Francesco ad Assisi, nella quale ha consegnato alla Chiesa parole importanti, anche la liturgia ci regala una riflessione utile, anzi necessaria. Le Scritture di questa domenica ci propongono di affrontare il delicato tema della fede, questo atto così universale e semplice che l’uomo ha bisogno di interpretare in modo sempre più autentico. E ci ricordano che la fede non possiamo averla, ma solo viverla. Ne abbiamo conferma quando ci rendiamo conto di essere servi non necessari. Cioè, liberi.  

Credere
L’interrogativo che «gli apostoli» rivolgono al Signore Gesù è facilmente condivisibile: «Accresci in noi la fede!» (Lc 17,6). La vita infatti, presto o tardi, diventa un viaggio arduo, anche doloroso, in cui si liberano accorate domande che possono diventare anche drammatica preghiera: «Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti?», «Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione?» (Ab 1,2.3). Il profeta Abacuc si fa interprete dei sentimenti di un popolo minacciato per l’ennesima volta dal potente di turno che desidera conquistare la terra  promessa da Dio. Il Signore risponde annunciando che ogni «violenza» (1,3) che opprime l’uomo ha «una scadenza» che «certo verrà e non tarderà» (2,3). Nel frattempo però è necessario imparare a fidarsi del cielo e della sua provvidenza, poiché «il giusto vivrà per la sua fede» (2,4). Nel viaggio della vita, insieme a tante cose utili ma non indispensabili, è necessario apprendere l’arte di credere nel Dio invisibile ma presente in ogni cosa e ogni storia. La risposta di Gesù ai discepoli è paradossale e costringe a riflettere: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: ‘Sràdicati e vai a piantarti nel mare’, ed esso vi obbedirebbe» (Lc 17,6). La fede — sembra dire il Maestro — non si fonda su una una quantità di gesti da realizzare, ma sulla qualità di un rapporto con Dio. La fede non è un serbatoio da riempire, ma è un atto da compiere, un atteggiamento da incarnare. La fede non è una cosa da avere, ma l’avverbio che qualifica il nostro vivere. Inutile cercare di assicurarsene una buona porzione; la fede acquista spessore nella misura in cui viene praticata, non immagazzinata. La fede non ci serve per fare lo slalom alle difficoltà, ma per entrare nel mistero della vita a occhi aperti.

Per servire
Senza farci caso, infatti, noi tante volte ci serviamo della fede — quella che diciamo di professare — per ingraziarci Dio, anziché per metterci con sincerità al suo servizio. Per questo Gesù continua il suo insegnamento dando l’impressione di cambiare argomento: «Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: ‘Vieni subito e mettiti a tavola’? Non gli dirà piuttosto: ‘Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu’?» (17,7-8). Credere nel Dio che Gesù ci ha rivelato non significa collezionare punti e meriti da ritirare un giorno nel paradiso. Significa piuttosto giocarsi la vita con lui e con la sua parola, scommettendo davvero sulla logica folle e meravigliosa del vangelo, che ci chiede di rinnegare il nostro io per entrare in una disponibilità di amore e di comunione con gli altri, nostri fratelli. Avere fede non significa possedere una polizza di assicurazione contro gli infortuni, o un fondo previdenziale per gli anni futuri. Significa semplicemente fidarsi di Dio ogni giorno, mettendo i nostri piedi sulle sue orme. Per questo la fede non ha bisogno di essere grande, ma soltanto piccola e autentica per poter compiere tutto «il bene prezioso» che ci «è stato affidato» (2Tm 1,14) dalla provvidenza di Dio.
Senza fare i conti
Questo modo di credere è un bello smacco per la nostra mentalità economica e sprecona, ormai abituata ad accumulare e a consumare senza più saper distinguere i sapori delle cose. Il vangelo poi si chiude con un’imbarazzante proposta, tutta da ascoltare: «Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: ‘Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare’» (Lc 17,10). Siamo servi di Dio, gente a cui Dio affida un compito, una missione da svolgere. Non una volta per tutte, ma sempre, ogni giorno. L’avventura di credere e di interpretare la nostra vita come un servizio è nuova a ogni risveglio. La vita ci offre l’occasione di fare tante belle cose, ma ci lascia sempre poveri, privi della possibilità di fare affidamento sul bene capitalizzato finora. Questo è il significato di quello scomodo titolo in cui il Maestro ci chiede di identificarci: «servi inutili», servi che non hanno diritto al salario, ma soltanto alla gioia di aver fatto quello che bisognava fare. Questo è l’ultimo, sufficiente motivo per cui la fede non necessita altro che essere piccola e viva. Credere in Dio e servire a lui è un modo di vivere che non attende ulteriori ricompense, perché essere discepoli del Risorto è già ricompensa a se stesso. Lavorare come figli amati per il Padre celeste è già salvezza, pienezza di vita. Dobbiamo riscattarci da una certa logica economica dominante, per cui ogni cosa deve avere un prezzo. Una logica che ci fa stare davanti a tutto e a tutti con un cuore mai in pace, sempre in attesa — o pretesa — di qualcosa in cambio. Avere fede significa accogliere il tempo come l’occasione di conoscere la volontà di Dio e di compierla «con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù» (2Tm 1,13). Sapendo che le cose che Dio ci chiede sono — in realtà — i regali che ci fa. Certi che Dio, anche quando appare duro ed esigente, ci sta aiutando ad accogliere il dono di una vita più grande nell’amore.

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