POSSIBILITÀ

XXIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

Questa domenica le Scritture ci costringono a riflettere. E a scegliere quale sapienza desideriamo abbracciare per orientare i passi del nostro cammino. Esistono infatti molteplici punti di vista da cui osservare e interpretare la vita. Per esempio quello della scienza, che «con fatica» si appassiona ad approfondire «le cose della terra» e «le cose del cielo» (Sap 9,16). Proprio una delle più autorevoli e ascoltate voci della comunità scientifica internazionale (S. Hawking), qualche anno fa, aveva avanzato un’audace tesi, secondo la quale “Dio non sarebbe necessario a spiegare la creazione dell’universo”. Sebbene l’astrofisico britannico possa aver compiuto un’indebita deduzione, sconfinando in un ambito dove il metodo scientifico non è in grado di giungere a pronunciamenti legittimi, la sua tesi porta in sé qualcosa di intrigante. La stessa parola di Dio, contenuta nelle letture di questa liturgia domenicale, comunica una notizia abbastanza simile e altrettanto sconcertante: essere credenti — meglio, discepoli di Cristo — non è nell’ordine delle cose necessarie. Ma in quello delle possibilità.

Scremature
Il Maestro Gesù, circondato da «una folla numerosa» (Lc 14,25), non si lascia per nulla incantare dal fascino dei grandi numeri, che spesso seducono e ingannano. Si gira verso i tanti discepoli che stanno camminando dietro a lui e decide di scuoterli precisando alcune condizioni: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (14,26). Aggiunge pure: «Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo» (14,27). La nuova traduzione cerca di rendere immediatamente comprensibile un originale che in greco è davvero scandaloso. Gesù afferma che per poterlo seguire, è necessario letteralmente «odiare» i legami familiari e amicali, persino la propria stessa vita. Inoltre bisogna fare i conti con la croce, cioè con il peso della realtà —  nostra e altrui — che chiede di essere assunto e portato con quotidiana fedeltà. È interessante ascoltare queste parole in un momento non certo facile (ma sicuramente fecondo) per il cristianesimo occidentale. Nella logica del vangelo assumono poca importanza le statistiche e le strategie volte a conservare un certo impatto ambientale che la Chiesa ha saputo costruire lungo i secoli. Più decisivo agli occhi di Gesù è chiederci se siamo davvero disposti a scommettere la nostra vita sulla sua parola, oppure siamo prigionieri di quei legami affettivi e di quella cura per noi stessi che, per quanto importanti, non possono darci la vita piena. 

Constatazioni
Sbaglieremmo a rintracciare in queste parole una minaccia, o un ricatto. Il Signore Gesù introduce nel nostro pensiero la luce di una limpida constatazione. Non ci dice che se non facciamo alcune cose, allora lui ne farà o non ne farà altre. Ci costringe semmai a riconoscere che, finché non siamo liberi da certe aspettative familiare e da una ossessiva attenzione a noi stessi, è praticamente impossibile seguire la proposta di vita del vangelo, che ci conduce a mettere l’altro prima e oltre noi stessi, secondo quell’amore esagerato che è in Dio. Non c’è giudizio e non c’è condanna, ma la forza di un sano realismo, che vuole portarci a riconoscere che non è possibile entrare nella vita adulta dei figli di Dio, senza operare tagli nelle nostre — più o meno evidenti — schiavitù affettive e nella nostra abitudine a far dipendere la nostra vita dagli altri, o dall’assenza di minacce che possano turbare il nostro corpo o il nostro spirito. 
Libertà
Per essere discepoli del Regno occorre solo molta libertà. E per essere liberi è necessario costruire e combattere ogni giorno, come Gesù stesso osserva, attraverso l’immagine della «torre» (14,28) da costruire e della «guerra» (14,31) da affrontare. Chiaramente il primo e più temibile avversario è il nostro io, oppresso da continui bisogni di rassicurazione e innumerevoli istinti di autoconservazione. Fino a quando non siamo disposti a rinunciare a «tutti gli averi» (14,33), magari riusciamo a essere brave persone, che si accontentano di non far male a nessuno, né di operare ingiustizie. Ma essere cristiani, cioè uomini e donne che camminano dietro a Gesù Cristo, significa scegliere di abbracciare una vita più grande, non più oppressa dalle piccole misure. Vuol dire sentirsi chiamati a compiere le opere stesse di Dio, come hanno fatto i santi. Come Paolo, per esempio, che con estremo distacco interiore suggerisce al «carissimo» amico Filemone di accogliere nuovamente Onésimo, il suo schiavo che era scappato, «non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo», di accoglierlo «sia come uomo sia come fratello nel Signore» (Fm 16). Paolo non abolisce la schiavitù, ma si prende la relativizza attraverso il criterio della carità, che è sempre capace di realizzare un bene che non è «forzato, ma volontario» (Fm 14). Non è infatti una necessità che ci si impone essere cristiani. È bello, riempie la vita, pone nel nostro cuore una meravigliosa speranza. Un po’ come Dio, che non vuole essere riconosciuto come necessario — tanto lo è — ma come meraviglioso alleato di una vita piena. Nell’amore che, liberamente, si offre e di dona.

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